Torniamo a soffermarci sul Secondo rapporto sul secondo welfare in Italia 2015 a cura di Franca Maino e Maurizio Ferrara, pubblicato dal Centro di Ricerca e Documentazione Luigi Einaudi. Come abbiamo già avuto modo di ricordare il “Rapporto 2015 fa il punto sulle tendenze in atto del secondo welfare, propone un bilancio complessivo delle sue realizzazioni, individua i suoi punti critici e suggerisce alcune proposte di cambiamento. Tramite questa pubblicazione, il Centro Einaudi intende fornire un utile contributo alla discussione pubblica su uno dei temi sicuramente più rilevanti per il futuro del nostro paese”.
Proponiamo ai lettori l’ultimo paragrafo del capitolo conclusivo dedicato alle prospettive e alle proposte.
Gli Autori identificano due tipologie di interventi per consolidare il secondo welfare e per promuovere innovazione sociale. La prima (“volano interno”) è rappresentata principalmente da nuovi strumenti finanziari e dall’estensione di “reti” che favoriscano il trasferimento di buone prassi. La seconda (“volano esterno”) riguarda il sostegno alla sperimentazione della finanza sociale, la diffusione del welfare aziendale anche attraverso l’introduzione del voucher universale, l’affermazione di un fisco prowelfare, l’attuazione del reddito minimo e, finalmente, la messa in campo di adeguati servizi per l’impiego e di efficaci politiche di conciliazione.
Resta da segnalare un passaggio cruciale. Senza una pubblica amministrazione lungimirante e ben organizzata questi obiettivi difficilmente potranno essere conseguiti. O meglio, potrebbero essere raggiuntivi “in via normativa”, ma non saranno attuati concretamente. Il ritardo del Mezzogiorno nel secondo welfare (come del resto nel primo) è in larga misura dovuto all’arretratezza della sua pubblica amministrazione. La diffusione di pratiche negoziali e/o collaborative tra pubblico e privato spesso richiedono una sofisticata capacità di intervento della PA. Quando le istituzioni pubbliche si ritraggono dall’erogazione diretta dei servizi per assumere un ruolo di “regolazione” degli attori sociali c’è bisogno di un surplus di competenze che in alcune aree del paese non sono disponibili. Non si tratta quasi mai di competenze specialistiche ma piuttosto di visione sistemica e di competenze organizzative. Il monitoraggio e la valutazione ne sono parte integrante; non a caso sono due funzioni del tutto sottovalutate nei contesti più problematici, dove prolifera l’opacità e lo scarso rispetto delle regole.
Prospettive e proposte
E’ possibile identificare una strategia di promozione del secondo welfare capace non solo di stimolarne l’ulteriore crescita, ma anche di orientare i suoi attori e i suoi programmi verso direzioni virtuose? Se è vero che il consolidamento è stato alimentato da volani interni ed esterni, è su questi due versanti che occorre concentrarsi.
Iniziamo, di nuovo, dai primi. Un volano indispensabile ha a che fare con le risorse. Si è detto che i soggetti attivi nella produzione del secondo welfare e quelli potenzialmente interessati a entrarvi sono sempre più numerosi. Per i primi la sfida è come assicurare la sostenibilità finanziaria e come crescere. Per i secondi la sfida è quella di reperire le risorse iniziali. In entrambi i casi, il ruolo chiave deve essere giocato dalla cosiddetta finanza sociale, intesa in senso lato. Vanno promossi percorsi non convenzionali per l’accesso al credito, incentivando gli istituti disponibili e interessati a finanziare la costruzione di partnership progettuali finalizzate a iniziative sociali. Questo significa creare opportunità di coinvolgimento delle banche interessate già nelle fasi di definizione dei nuovi progetti, affinché esse comprendano meglio le logiche e i profili di sostenibilità delle iniziative a volte non valutabili o non facilmente comprensibili mediante l’utilizzo di rigidi e convenzionali parametri di valutazione e rating. Se opportunamente coinvolto nell’elaborazione dei progetti, il soggetto bancario è in grado di fornire utili contributi al disegno economico-finanziario delle attività sociali su cui intende investire. Secondo questa logica, meriterebbero attenzione strumenti in grado di integrare forme di credito a forme di crowdfunding, titoli obbligazionari a collocamento privato volti a sostenere lo sviluppo del Terzo Settore o per finanziare progetti di utilità sociale a tasso di interesse ridotto, nonché sistemi di garanzie dedicati a organizzazioni non profit. Gli strumenti finanziari sono chiamati a svolgere un ruolo strategico anche nella trasformazione delle imprese sociali. Da questo punto di vista è importante tenere conto che la disponibilità di tecnologie a basso costo, per l’individuazione e la soluzione di problemi sociali, può innescare modalità di intervento molto diverse dalle attuali, promuovendo processi anche repentini di crescita, capitalizzazione e trasformazione.
Un secondo volano interno da costruire riguarda l’estensione delle reti e il trasferimento di conoscenze e buone pratiche, per superare frammentazione e duplicazioni e per rafforzare il secondo welfare nel Mezzogiorno. Qui si potrebbe agire su due fronti. Innanzitutto la condizionalità per l’accesso ai finanziamenti, pubblici e privati, prendendo esempio dalla nuova strategia di condizionalità adottata dalla UE per le politiche di coesione. Tramite la condizionalità si dovrebbe spingere le reti già esistenti ad allargarsi (ad altri soggetti, ad altre misure, ad altri settori d’intervento) e a costruire “reti di reti”. Il secondo fronte è l’adozione di forme di capitalizzazione “a basso costo” delle best practice esistenti, al fine di diffondere/restituire quanto appreso dalle esperienze/progettualità di maggior successo. Lo strumento potrebbe essere quello del twinning, peraltro raccomandato e finanziato anche dalla UE: per esempio comuni/territori virtuosi – superata la fase di sperimentazione – potrebbero “adottare” (affiancare) altri comuni/territori per disseminare i risultati e condividere il percorso implementativo. Potrebbe aiutare molto anche la sperimentazione di “piattaforme” o “laboratori” sia digitali sia fisici, in una logica di utilizzo delle nuove tecnologie al servizio del sociale, per mettere in relazione domanda e offerta. Similmente utile sarebbe potenziare le funzioni di coordinamento anche all’interno dei principali enti erogatori, come le Fob o le stesse banche, identificando una figura chiave (facilitatore di rete/case manager/pathway guide…) con competenze specifiche per svolgere il ruolo di pivot nella coprogettazione e coproduzione di servizi.
Ma veniamo ai volani esterni, in questa fase più cruciali. Si tratta di interventi normativi che aprano spazi e introducano incentivi e facilitazioni per le principali dinamiche di secondo welfare. Per far crescere la finanza sociale sarebbe per esempio utile rivedere la disciplina dei contratti pubblici immaginando che alcune regole che richiedono l’evidenza pubblica (appalti e bandi di gara per la fornitura di opere e servizi) possano essere “sospese” nel caso di sperimentazioni della finanza sociale. Fondamentale anche concludere l’iter della riforma del Terzo Settore. Essa può alimentare il secondo welfare perché incentiva la partecipazione e la responsabilizzazione dei vari soggetti; ridefinisce il ruolo del volontariato e l’importanza delle reti multiattore a partire dalla riorganizzazione dei Centri servizio per il volontariato; concorre alla ridefinizione del ruolo delle imprese sociali. Proprio in riferimento a queste ultime, si potrebbe integrare il disegno di riforma con la cosiddetta proposta Del Barba sulle B-Corp, ossia le benefit-corporations (già ampiamente diffuse negli Stati Uniti): aziende for profit che vogliano andare oltre l’obiettivo del profitto e massimizzare il loro impatto positivo verso la società e l’ambiente.
Occorre poi approvare rapidamente l’introduzione del voucher universale, di cui si è già detto. Tale strumento potrebbe rivelarsi particolarmente prezioso per diffondere il welfare aziendale anche tra le Pmi (e tra gli enti bilaterali): le imprese più piccole rinunciano a offrire benefit ai propri dipendenti perché non hanno le forze economiche e gestionali né la “massa critica” sufficienti per studiare e implementare un proprio sistema di welfare (stipula di convenzioni, gestione delle richieste di servizi e rimborsi) ma attraverso il voucher potrebbero usufruire di una rete di fornitori già strutturata e condivisa con le altre aziende aderenti sullo stesso territorio, offrendo i benefit attraverso il semplice acquisto dei voucher (con fiscalità agevolata per taluni beni/servizi).
Quanto al welfare aziendale, di fondamentale importanza sarà l’approvazione dell’art. 12 della Legge di stabilità per il 2016 e la successiva approvazione del decreto attuativo relativamente al premio di produttività, auspicando un suo collegamento con la proposta di legge sullo smart working. Nell’ambito dei provvedimenti già in agenda, sarebbe necessario chiarire (in specie nell’art. 12 della Legge di stabilità) che le somme, le prestazioni e i servizi di welfare aziendale disciplinati dall’art. 51 del Tuir possano essere erogate anche per il tramite degli enti bilaterali, promossi sulla base dei contratti collettivi stipulati dalle parti sociali. Questo faciliterebbe infatti la diffusione del welfare aziendale anche nelle imprese più piccole e territorialmente frammentate.
La normativa fiscale non è importante solo per il welfare negoziale, ma per quasi tutta la gamma di attività del secondo welfare. Il fisco produce un impatto significativo sui comportamenti che hanno a che fare con la produzione, distribuzione e allocazione del reddito delle persone e delle imprese. L’identificazione dei caratteri di un fisco prowelfare è un’operazione delicata e complessa. Se ben congegnata, tale operazione può promuovere una maggiore diffusione di strumenti assicurativi come la sottoscrizione di polizze sanitarie e/o di long term care o l’iscrizione alle mutue sanitarie o l’adesione a piani di accumulo per la formazione dei figli, ovvero l’agevolazione di spese sociali private come quelle per le assistenti familiari o le babysitter, quelle per la formazione. Molto importante anche l’armonizzazione fiscale e delle regole che riguardano i diversi operatori: il mondo delle assicurazioni, dei fondi sanitari e previdenziali, delle società di mutuo soccorso, degli enti bilaterali. Solo con una riforma fiscale e regolativa “di sistema” è possibile passare da un welfare integrativo disomogeneo, discontinuo e parziale come quello attuale a un welfare integrativo inclusivo e ampio che accompagni i lavoratori e le loro famiglie lungo l’intero ciclo di vita. Si tratterebbe di predisporre piani sinergici che includano schemi sanitari e previdenziali integrativi, oggi separati. Un modello di welfare contrattuale integrato potrebbe fare da volano per la diffusione di un pilastro previdenziale e sanitario complementare, garantendo maggiore omogeneità e portabilità alle tutele previste.
Il principale volano esterno dovrebbe però essere il completamento dell’agenda di riforme sociali in discussione ormai da tanti anni. Innanzitutto l’istituzione di uno schema di reddito minimo, procedendo più speditamente e con maggiori investimenti sulla strada già intrapresa con la Legge di Stabilità per il 2016. In secondo luogo, la piena attuazione del Jobs Act per quanto riguarda i servizi per l’impiego e le politiche di conciliazione.
L’intreccio fra primo e secondo welfare non riguarda solo le cornici normative, ma anche le dinamiche organizzative al cosiddetto livello grass roots. Aiuterebbero molto alcuni cambiamenti interni agli enti regionali e locali che promuovessero l’azione sinergica tra assessorati: per esempio creando una cabina di regia congiunta tra ambito sanitario e socio-assistenziale gestita congiuntamente dagli assessorati alla sanità e alle politiche sociali. La stessa azione sinergica andrebbe costruita o rafforzata tra l’assessorato alle politiche sociali, quello alle politiche del lavoro e l’assessorato con competenze in materia di housing/casa per creare una filiera virtuosa in grado di fronteggiare il rischio vulnerabilità e povertà. Un altro aspetto cruciale riguarda l’accesso ai servizi. Nel nostro paese a livello locale l’accesso a molte prestazioni, da quelle sanitarie a quelle socio-assistenziali, dall’istruzione alla formazione e ai servizi per l’impiego, è spesso molto difficile perché l’offerta è frammentata, non è chiaro a chi rivolgersi, dove acquisire informazioni, quali siano i requisiti necessari. Persone in condizione di non autosufficienza, immigrati, famiglie con figli a carico (soprattutto fino a 3 anni) sono i tipi di destinatari che più sperimentano queste difficoltà. Per questo sarebbe strategico puntare alla creazione di punti di accesso unici (sportelli unici o one-stop-shops) per favorire l’integrazione tra i servizi, la personalizzazione delle risposte attraverso una trattazione mirata di casi/soggetti in condizione di vulnerabilità e la creazione di collaborazioni mirate e localizzate fra primo e secondo welfare.
Vi è infine il tema del monitoraggio e della valutazione. Come nel Rapporto precedente, siamo costretti a chiudere anche questa edizione con un richiamo sull’importanza di entrambi. Non possiamo entrare nel merito di ciò che si potrebbe e dovrebbe fare. Ci limitiamo a osservare che nei paesi con cui ci confrontiamo esistono pratiche e istituzioni da cui prendere spunto. Il problema non è come si fa a monitorare e valutare. è fare il primo passo, formalizzare la funzione e affidarne lo svolgimento a un soggetto istituzionale (non necessariamente pubblico, anzi) con compiti e scadenze chiare. Certo, l’operazione avrebbe un costo non trascurabile. Qualcuno potrebbe pensare che le risorse sarebbero meglio impegnate finanziando un’iniziativa concreta “sul campo”, rispondere a un bisogno, soddisfare una richiesta. Non è così. Il secondo welfare è un fiume che scorre sempre più veloce, ma ha bisogno di essere incanalato. Soprattutto in un paese come l’Italia: fluido e vitale, ma incline al disordine e alla frammentazione localistica e particolaristica.