Oggi 4 ottobre festeggiamo la seconda edizione della “Giornata del dono”, istituita lo scorso anno con la legge 14 luglio 2015, n. 110. “La Repubblica italiana riconosce il 4 ottobre di ogni anno Giorno del dono” (…), ravvisando nelle attività donative “una forma di impegno e di partecipazione nella quale i valori primari della libertà e della solidarietà affermati dalla Costituzione trovano un’espressione altamente degna di essere riconosciuta e promossa”. Dunque, il dono è espressione di primari valori costituzionali come la libertà e la solidarietà e testimonia impegno civile e partecipazione.
Ciò detto, avverto l’esigenza di utilizzare questa occasione per abbozzare una riflessione sui significati meno evidenti e, forse, più profondi della parola “dono”. Ancora una volta partirei dall’etimologia del termine. In latino Donum; alcuni sostengono che il verbo derivi dalla radice ittita deh che significa “accettare”; in greco didomi “dare”; donum è, quindi, “l’oggetto che si dona”. Il significato di donare, secondo il Vocabolario Treccani, consiste nel “dare ad altri liberamente e senza compenso cosa utile o gradita”. Una modalità particolare del “dare”, senza vincoli e senza contropartite; “dare” qualcosa che serva a migliorare la condizione di chi riceve.
Erri De Luca aiuta a comprendere il senso del dono utilizzando il racconto della liberazione dalla schiavitù del popolo ebraico, nutrito nel suo cammino dalla manna. “La manna è stata la più assidua manifestazione divina. Non ha niente di miracoloso, cioè una botta e via, ma un’assistenza quotidiana e ininterrotta. È il migliore esempio di soccorso pronto e indipendente. Non s’inceppa per quarant’anni di cammino sopra la crosta spoglia della terra, neanche nei giorni storti del vitello d’oro, della ricaduta nell’idolatria. Nemmeno di fronte al voltafaccia, al rinnegamento, smette. Il fornitore faceva sapere che l’indispensabile va dato senza condizioni”. Il dono della manna c’è sempre, accompagna il cammino; il fornitore non si fa condizionare dai comportamenti del popolo, neppure dai peggiori, assicura quanto serve, a tutti, costantemente e in quantità adeguate, evitando scorte e accaparramenti. Straordinaria la conclusione. “Il mondo si regge sulla manna, sull’economia del dono, che scombina la ragioneria della partita doppia dare/avere. Non è utopia di là dell’orizzonte e non è stella cometa, apparizione breve e che lascia il cielo come prima. L’economia del dono è questa porzione costante di manna. Distribuita nei deserti, nelle aridità, nutre il sorriso e dà valore alla parola grazie”.
Tuttavia sottrarsi alla “ragioneria della partita doppia dare/avere” è tutt’altro che facile. La gratuità, se riflettiamo con attenzione, sembra essere una dimensione estranea alle dinamiche sociali. In un modo o nell’altro il dono suscita aspettative di reciprocità. Al filosofo Jacques Derrida il dono appare, addirittura, “impossibile”; ma proprio argomentando a proposito di questa impossibilità indica la profonda radicalità di questo concetto. “Affinché ci sia dono bisogna che il donatario non restituisca, non ammortizzi, non si sdebiti, non entri nel contratto, non abbia mai contratto un debito (…) al limite il dono come dono dovrebbe non apparire come dono: né al donatario, né al donatore”.
Queste riflessioni rendono ancor più stringente la domanda che Enzo Bianchi, teologo e priore della Comunità di Bose, si è posto in un recente intervento. “Esiste ancora il dono, oggi? In una società segnata da un accentuato individualismo, con i tratti di narcisismo, egoismo, egolatria che la caratterizzano, c’è ancora posto per l’arte del donare?” La risposta sembra scontata. Certo che c’è ancora posto per il dono, anzi la nostra società sembra dare infinite prove di generosità, soprattutto per affrontare le avversità che travolgono la vita quotidiana delle comunità. Qualcuno ricorda che gran parte della stessa economia funziona contraddicendo la teoria dello scambio degli equivalenti. Tutto vero, in un Paese che ha le meravigliose esperienze il dono non è declamazione ma pratica concreta.
Tuttavia non ci si può accontentare solo di quanto appare in superficie; è necessario fare i conti anche con le contraddizioni che attraversano la realtà delle donazioni. Viene in aiuto, ancora, Enzo Bianchi: “Si può persino usare il dono – pensate agli aiuti umanitari – per nascondere il male operante in una realtà che è la guerra”. Oppure si può operare una “forte banalizzazione del dono”: “oggi si dona con un sms una briciola a quelli che i mass media ci indicano come soggetti – lontani! – per i quali vale la pena provare emozioni …”. Parole dure che, però, segnano la giusta distanza tra il “dare” e il “donare”, suggeriscono di sottrarre il concetto di dono a ogni “illusione” sentimentalista e buonista.
Donare è un atto forte, radicale, intenso. È “un movimento asimmetrico che nasce da spontaneità e libertà” perché stabilisce una relazione con l’altro al di fuori da ogni aspettativa di reciprocità: si dona e basta. “E se il dono non riceve ritorno, in ogni caso il donatore ha posto un gesto eversivo: attraverso il donare ha acceso una relazione non generata dallo scambio, dal contratto, dall’utilitarismo”.
Naturalmente è possibile “donare” oggetti, beni, denaro ma non è possibile farlo aspettando restituzioni, creando vincoli e dipendenze, e neppure “sdebitandosi” per la propria buona sorte: questo è “dare” non “donare”. La dimensione del dono postula la volontà di stabilire una relazione con gli altri, il prendersi cura e il mettersi al servizio, in assoluta libertà, per costruire “giustizia”. “Ma il dono all’altro – parola, gesto, dedizione, cura, presenza – è possibile solo quando si decide la prossimità, il farsi vicino all’altro, il coinvolgersi nella sua vita, il voler assumere una relazione con l’altro”.
È troppo alta l’asticella? È una visione del “dono” troppo radicale, lontana dall’esperienza quotidiana? Niente affatto. “In una società segnata da un accentuato individualismo, con i tratti di narcisismo, egoismo, egolatria” le tracce dell’autentica cultura del dono si moltiplicano, si diffondono, raggiungono territori inesplorati. Bisogna scovare queste esperienze, saperle leggere, comunicarle a chi vuole ascoltare. È un lavoro che richiede interesse, determinazione, “amore” per la comunità. Ed è un lavoro “difficile”, ma è giusto che sia così, perché chi “dona” davvero, in genere, si attiene a un principio: “non sappia la tua sinistra ciò che fa la destra”.