Due giorni fa abbiamo dato notizia della presentazione del Dossier “Ecogiustizia è fatta” di Legambiente (leggi l’articolo) che traccia un bilancio della prima fase di applicazione della nuova legge sugli ecoreati, la legge n. 68 del 2015, introducendo nel nostro Codice penale il Titolo VI-bis in materia di delitti contro l’ambiente.
Forse vale la pena ricordare, a vantaggio dei lettori, che prima dell’entrata in vigore della legge 68/2015 nel contrasto ai reati ambientali “forze dell’ordine e autorità giudiziaria avevano a disposizione armi spuntate ed erano spesso costrette ad arrampicarsi sugli specchi, contestando nei procedimenti giudiziari articoli e commi previsti per tutt’altro”. Oggi, finalmente, nel Codice penale sono stati introdotti, tra gli altri, i reati di disastro ambientale, di traffico e abbandono di materiale ad alta radioattività, di impedimento del controllo, di omessa bonifica. Inoltre sono previste circostanti aggravanti nel caso in cui i reati siano commessi mediante associazione per delinquere oppure mediante associazione di tipo mafioso; così come, per altro verso, è stato previsto l’istituto del ravvedimento operoso. La confisca e il raddoppio dei tempi di prescrizione completano il panorama dei nuovi strumenti messi a disposizione dalla legge 68/2015.
Nella nota di presentazione del Dossier di Legambiente ci siamo soffermati puntualmente sia sui dati relativi ai reati contestati nei primi otto mesi di applicazione della legge, sia sulle ulteriori proposte formulate dall’Associazione ambientalista per rendere ancora più penetrante il contrasto all’illegalità ambientale.
Non resta, quindi, che proporre un breve estratto del Rapporto dedicato ai “settori più esposti alle pratiche illecite”, almeno per quanto risulta nei primi otto mesi di applicazione della nuova legge.
Inoltre, chi volesse consultare il testo integrale del Rapporto, può accedere al link.
Una prima analisi dell’applicazione della legge 68 per settore d’intervento
La lettura di questi primi 8 mesi di applicazione della legge 68 da parte delle forze dell’ordine e della magistratura consente di delineare anche una sorta di “classificazione” dei settori più esposti alle pratiche illecite.
È il caso della depurazione, dove ai controlli degli inquirenti si sono accompagnate negli ultimi mesi numerosissime violazioni della legge, con un alto ricorso alle prescrizioni. Su questo fronte si sono contraddistinte tutte le forze dell’ordine e sarebbe impossibile in questo lavoro citare tutti gli interventi in tal senso. Solo per fare qualche esempio, l’11 febbraio scorso è stata la Capitaneria di Porto di Salerno, coordinata dalla Procura salernitana, a sequestrare gli impianti di depurazione di Amalfi e Praiano (Salerno). Al centro dell’operazione il cattivo funzionamento dei due impianti con conseguente sversamento dei rifiuti direttamente in mare, nel cuore della Costiera Amalfitana, uno dei gioielli d’Italia.
Appena due giorni prima erano stati i carabinieri del Noe di Lecce a sequestrare l’impianto di depurazione delle acque reflue civili di Martina Franca, in provincia di Taranto.
Stesso scenario di impianti di depurazione fatiscenti o non funzionanti in Sicilia, dove solo tra Agrigento e Sciacca negli ultimi mesi sono stati messi i sigilli a 5 depuratori, a Ribera, Licata, Agrigento, Villaggio Mosè e, in ultimo, Cattolica Eraclea. A Tusa (Me) nel novembre 2015 sono stati gli agenti del Commissariato di Pubblica Sicurezza di Sant’Agata Militello a intervenire sul depuratore locale, la cui gestione è risultata fuori legge. Da sottolineare che in questo caso subito dopo la scoperta e la decisione dei poliziotti di impartire le prescrizioni, i gestori si sono prontamente conformati a quanto prescritto.
A ottobre è stata, invece, la Capitaneria di Porto di Crotone a sequestrare tre depuratori sui 5 esistenti a Caccuri, provincia di Crotone, per gestione illegale. Durante le indagini è emerso il solito copione: le acque reflue urbane provenienti dalla rete fognaria cittadina facevano ingresso nei depuratori situati nelle località Campo, Rupe e Santa Rania ma non venivano sottoposte al previsto ciclo depurativo e finivano tal quali, attraverso dei bypass, direttamente nei corsi d’acqua o fossi naturali. Gli impianti di depurazione, infatti, non erano nemmeno serviti da energia elettrica e versavano in completo stato di abbandono e totalmente inefficienti, per cui sono stati posti sotto sequestro, con facoltà d’uso per essere ripristinati.
L’applicazione della legge 68 si è contraddistinta anche in diversi casi di estrazione abusiva di sabbia e ghiaia dai corsi d’acqua, da nord a sud passando per il centro. Continuando una lunga tradizione ecocriminale, l’alveo di molti fiumi, come il Po, continua a essere facile bersaglio da parte di imprese spregiudicate, sia in maniera completamente criminale che attraverso una gestione illegale delle autorizzazioni in possesso. Tra i casi più eclatanti scoperti di recente (novembre 2015), il saccheggio di sabbia e ghiaia dal greto del torrente Titerno, in provincia di Benevento, tanto da portare i finanzieri a contestare in questo caso l’inquinamento ambientale ex art. 452 bis. Diverse operazioni simili di prelievo abusivo nei corsi d’acqua e lungo i litorali costieri si sono comunque avute anche in Emilia Romagna, Lombardia, Sicilia e in Campania.
Passando alla tipologia dei soggetti responsabili di reati ambientali colpiti dalla legge 68, emerge in particolare la presenza di ditte di trattamento e gestione di rifiuti, che come ha ricordato anche l’ultima Relazione annuale (2015) della Direzione nazionale antimafia (Dna) troppe volte vengono smascherate in azioni illegali. Accanto a queste, non sono mancate imprese di costruzioni, aziende vitivinicole, cooperative agricole, aziende zootecniche, aziende olearie, ditte specializzate in finiture metalliche e/o in carpenteria, laboratori di analisi, aziende produttrici di detersivi, di mobili, presidi ospedalieri.
Non c’è infatti alcun dubbio sulla natura squisitamente economica dei crimini ambientali, colpa di una parte, purtroppo significativa, di mondo produttivo tenacemente avvinta a vecchie e spregiudicate logiche illegali. Fin qui nulla di nuovo, come raccontiamo sin dagli anni Novanta nei nostri dossier e nelle diverse edizioni del Rapporto Ecomafia. Di nuovo c’è invece che questi pseudo-imprenditori adesso rischiano molto di più grazie alla legge 68, che agisce sia in termini repressivi che preventivi, alzando l’asticella dei rischi a cui va incontro chi decide di fare concorrenza sleale sul mercato, inquinando l’ambiente e minacciando la salute dei cittadini.
L’analisi complessiva delle attività repressive condotte grazie al nuovo quadro normativo mostra, come già accennato, che la legge 68 viene in ausilio degli inquirenti non solo rispetto ai sei nuovi delitti, ma anche nei casi di accertamento di reati ambientali contravvenzionali ai sensi della Parte Sesta bis del D.lgs.152/2006, soprattutto nel campo della gestione dei rifiuti (su tutti l’art. 256 del Codice ambientale sulla gestione illegale di rifiuti).
In sostanza, il nuovo art. 318 bis prevede un procedimento amministrativo di estinzione della pena attraverso l’emanazione da parte delle autorità di controllo e repressione di prescrizioni da impartire ai responsabili (prescrizioni asseverate da parte dell’ente specializzato competente per materia, che solitamente è l’Agenzia regionale protezione ambiente). Lo scopo è sanare entro termini fissatigli illeciti (mettendosi in regola con la legislazione ambientale) e con il pagamento di una sanzione pecuniaria (stabilita in una somma pari a un quarto del massimo dell’ammenda stabilita per la stessa contravvenzione commessa) per evitare il procedimento penale ed estinguere così il reato. Questo procedimento amministrativo può comunque essere adottato solo per le ipotesi contravvenzionali in materia ambientale che non hanno comportato danni o pericolo di danni alle “risorse ambientali, urbanistiche o paesaggistiche protette”. Nessun procedimento amministrativo del genere, insomma, per i casi di inquinamento e disastro ambientale o altri delitti ambientali previsti dalla legge sugli ecoreati.
Il Corpo forestale dello Stato in questi primi mesi di applicazione della nuova normativa ha impartito ben 201 prescrizioni (79 delle quali già ottemperate entro i termini fissati), portando alla denuncia di 307 persone. Ma si tratta dello stesso indirizzo che il Comando tutela ambiente dell’Arma dei carabinieri sta imprimendo alla propria azione in materia di contrasto agli ecocrimini.
Senza avere ancora statistiche dettagliate ufficiali, l’analisi empirica mostra in maniera evidente come nella maggior parte dei casi le aziende alle quali sono state comminate le prescrizioni adempiono, entro i termini, a quanto loro prescritto: ne beneficia l’ambiente, con la messa in regola della condotta incriminata (evitando per il futuro l’eventuale pregiudizio) e ne beneficia anche il sistema di amministrazione della giustizia, avendo evitato i tempi lunghi di procedimenti penali che, spesso, nonostante il dispendio di risorse sono costretti a cedere il passo alle ravvicinate prescrizioni.
Non mancano però i casi in cui le prescrizioni non vengono rispettate (oppure vengono rispettate oltre fuori tempo massimo), sintomo evidente di azioni criminali deliberate e ponderate, che quindi giustificano l’intervento tempestivo e deciso dell’Autorità giudiziaria per dare seguito al procedimento penale. Dopo aver dato all’azienda una chance di mettersi in regola, la scelta della perseveranza ecocriminale apre, giustamente, le porte al giudizio penale, dunque.