Sono grato a Francesco Lo Piccolo per la riflessione proposta nell’articolo “I fatti di Goro e Gorino”, pubblicato nella rubrica Diritti e rovesci. Non avrei saputo trovare parole migliori per esprimere l’amarezza, la rabbia e il disagio di fronte al rifiuto di ospitare 12 donne straniere e i loro 8 bambini.
Ma devo essere sincero: a fine lettura serpeggia in me una strana sensazione. Sono d’accordo su tutto, scrivo spesso sugli stessi temi e, a volte, credo di aver usato espressioni molto simili; eppure c’è qualcosa che non va, qualcosa che non mi convince fino in fondo. Mi sono interrogato a lungo e, dopo qualche giorno, provo a dar corpo ai miei pensieri.
Non voglio affrontare, in particolare, il caso di Goro e Gorino ma, in generale, riflettere sulle comunità locali che manifestano resistenze o addirittura ostilità all’accoglienza dei profughi. Gli episodi sono molti e diffusi sull’intero territorio nazionale. Lo straniero in ogni circostanza è percepito come il “nemico”? I populismi politici e televisivi ormai hanno scavato così in profondità da oscurare i sentimenti di umanità e solidarietà? Siamo arrivati al “capolinea della ragione”? Non ne sono convinto.
Certo, si sono diffuse a piene mani paure irrazionali in larghe fasce della popolazione e, com’è noto, la paura è difficile da gestire. È vero che in alcune piccole comunità prevalgono minoranze rumorose e talora violente, mentre troppi tacciono. Ma queste spiegazioni non soddisfano a pieno. Ci dev’essere dell’altro.
Provo a formulare un’ipotesi. Oggi in Italia il tema dei rifugiati viene affrontato come un problema di ordine pubblico, affidato prevalentemente al Ministero dell’Interno. Fino a quando sarà così dobbiamo aspettarci che le risposte della popolazione siano “accettazione passiva” o “protesta rumorosa”. Non so quale delle due sia peggiore. Mi chiedo: qualcuno ha parlato con le comunità alle quali si chiede di accogliere i rifugiati? Sono state esaminate, in un confronto pubblico, l’adeguatezza degli edifici, i servizi di supporto e le condizioni di contesto in cui si offre ospitalità? Per quanto mi risulta la risposta è negativa. Le procedure decisionali riguardano Ministero e Prefetture, in qualche caso i sindaci vengono informati. D’altra parte, a un problema di ordine pubblico si fornisce una risposta secondo la struttura gerarchica. Quando è possibile si attivano processi di informazione, niente di più.
Ma le grandi migrazioni non sono un problema di ordine pubblico. I flussi migratori impattano sulla vita delle comunità locali chiamate a ospitare, per periodi più o meno lunghi, un certo numero di rifugiati. Dialoghiamo con queste comunità locali? Le informiamo sui fatti, smentendo “leggende metropolitane” costruite ad arte? Troviamo soluzioni dignitose e accettabili? Non si dica che manca il tempo perché si devono affrontare emergenze. Questa è una bugia in cattiva fede. Possiamo prevedere, con buona attendibilità, tempi e numeri degli sbarchi. Le soluzioni vanno programmate e non “cercate” sul momento. Comunità accoglienti si costruiscono nel tempo, con scelte oculate e realistiche. L’ospitalità dei richiedenti asilo è una novità per il nostro Paese alla quale dobbiamo adeguarci rapidamente. E l’unico modo per farlo consiste nel dialogo, nell’informazione, nella condivisione con chi è chiamato a “ospitare lo straniero”.
Per la verità sembra che in Italia si faccia esattamente il contrario. Improvvisazione nel trovare le soluzioni. Spesso inadeguatezza delle risposte identificate. Nessuna informazione e, men che mai, condivisione. Imposizione delle scelte. E abbiamo anche il coraggio di meravigliarci che ci siano diffidenze e resistenze, che si creino proteste, spesso incoraggiate da speculazioni politiche anche a sfondo razzista! Non c’è nulla di strano: questo è il prevedibilissimo risultato di un “approccio” alla questione “migranti” in termini di ordine pubblico.
Non possiamo pretendere che tutti abbiano una sensibilità individuale in grado di superare ogni ostacolo in ragione del valore assoluto della solidarietà. Sarebbe auspicabile ma non è così, e non è ragionevole pretenderlo. La domanda di sicurezza non nasconde sempre insensibilità e rifiuto dell’altro. L’accoglienza è un valore che non si manifesta solo nella dimensione individuale ma è, anche, una risposta di sistema. L’accoglienza si costruisce mettendo insieme informazione, cultura, strutture, servizi. La sensibilità individuale è il valore aggiunto, non l’alibi per nascondere inefficienza e sostanziale indifferenza. Non possiamo rovesciare la piramide. Non possiamo utilizzare il grande e meraviglioso sentimento di solidarietà espresso da larga parte del Paese per “nascondere” l’incapacità a fornire risposte collettive.
Forse possiamo ancora evitare il “capolinea della ragione” e avere fiducia nelle nostre comunità. Per farlo dobbiamo imparare dai tanti piccoli paesi che in questi anni hanno accolto migranti trovando così nuova linfa per il proprio futuro. Ma per andare in questa direzione abbiamo bisogno di lavorare sulla dimensione collettiva, pubblica. Questo sforzo, nel nostro Paese, è innovazione sociale.