Il tema è particolarmente complesso, l’approccio è concreto, sperimentale, a fianco degli operatori che operano sul campo. Ci riferiamo al progetto “Adolescenza e terzo settore. Conoscere e condividere buone prassi per lo sviluppo del contesto sociale“, organizzato da UISP Emilia Romagna e finanziato dalla Regione Emilia Romagna.
L’iniziativa nasce nell’ambito della più ampia iniziativa regionale Adolescenza e Terzo Settore “con lo scopo di definire ambiti di confronto e formazione trasversali ed interdisciplinari, e di immaginare possibili risposte specifiche rivolte agli operatori del Terzo Settore che agiscono nell’ambito delle attività rivolte agli adolescenti”.
Gli adolescenti sfuggono a categorizzazioni e schemi rigidi. I progetti a loro dedicati sono quelli con il più alto indice di insuccesso. Non si sa bene dove mettere le mani ma, al contempo, c’è un estremo bisogno di accompagnare i ragazzi verso l’età adulta e, quando si trova la chiave giusta, i risultati sono davvero straordinari. Per questo è utile focalizzare l’attenzione sul tema dell’adolescenza e sulle relazioni possibili con il grande mondo del Terzo settore.
Tornando all’iniziativa in questione, al di là delle sue caratteristiche specifiche, ci sembra di grande interesse lo sforzo di mettere insieme operatori, educatori, tecnici quotidianamente a contatto con gli adolescenti per riflettere insieme, costruire un linguaggio comune, “conseguire strumenti e metodologie utili a riportare al centro le potenzialità e le abilità dell’adolescente”.
Tappe e risultati di questo prezioso lavoro sono riportati in un fascicolo pubblicato su www.volontariamo.it, il portale del volontariato modenese (leggi il testo integrale). Consigliamo ai nostri lettori di dedicare qualche minuto a queste pagine che in realtà contengono molte più domande che risposte. Ma proprio in questo consiste il loro interesse.
Di seguito qualche passaggio introduttivo dell’intervento di Stefano Laffi, ricercatore sociale ed esperto di culture giovanili.
Lasciare fare/parlare gli adolescenti ovvero dare spazio ai giovani
intervento di Stefano Laffi al percorso di formazione
I giovani e l’esperienza
Tradizionalmente nelle politiche giovanili promosse dai servizi e rivolte ad adolescenti e ragazzi l’esperienza viene guardata con molto timore, molto spesso codificata mettendo in evidenza prioritariamente gli elementi di rischio, individuando quindi dentro l’esperienza le possibili minacce, certamente anche concrete, ma non per questo inevitabilmente incluse.
L’esperienza viene quindi guidata verso binari ricreativi, dove il controllo è più semplice, indirizzata verso una sorta di “sterilizzazione della vita dei ragazzi dal pericolo”1 (Laffi S., Crescere oggi: chi ha rubato il traguardo?, www.codiciricerche.it).
Potrebbe essere il tempo di cambiare paradigma, smettendo di guardare l’esperienza come qualcosa di necessariamente pericoloso e minaccioso. I ragazzi hanno un enorme bisogno di fare cose, soprattutto hanno bisogno di essere rilevanti rispetto al contesto in cui vivono.
Cosa vuol dire quindi ragionare di esperienza e soprattutto di che tipo di esperienza stiamo parlando? Occorre anzitutto tracciare l’immagine del contesto attuale e del rapporto tra generazioni, dove la figura dell’adulto, quale detentore della verità, della conoscenza, del sapere e dell’esperienza significativa, di fronte al giovane ragazzo che si affaccia al mondo a cui trasmetterle, è entrato in crisi.
Questa schema, se vogliamo molto teatrale, funziona in un mondo statico, in un mondo di certezze, dove i saperi sono scritti, i manuali sono definiti e l’adulto esperto, formato dagli anni, rende il suo sapere disponibile alle nuove generazioni. Siamo in un mondo che cambia e lo fa molto rapidamente ed in forma imprevedibile per tutti.
Un ragazzo che chiede ai genitori o ai suoi insegnanti indicazioni per il proprio futuro ha di fronte persone che onestamente sono disorientate, perché i modelli il sapere e le strade di ieri non sono più il riferimento. Come se le istruzioni per l’uso per il futuro non fossero disponibili.
In questo nuovo contesto il compito degli adulti non è più quello di illustrare il presente con senso predittivo su quello che succederà domani, perché il presente non esaurisce il possibile; e il compito è quello di ragionare in termini di possibile, continuamente, interrogandosi e chiedendosi come il presente possa cambiare.
In questo contesto i giovani giocano il ruolo di pionieri che devono spostare la frontiera, proprio perché non hanno di fronte repertori sufficienti a dirgli “ok questa è la strada”. E se non c’è una strada maestra da seguire ti muovi per tentativi, ti muovi per prove ed errori. Ecco allora che l’errore diventa uno degli elementi fondamentali impliciti nell’azione esplorativa.
Noi adulti siamo stati educati al fatto che esistesse una risposta, la cosa giusta e l’errore ne rappresentava e ne rappresenta una deviazione. Ma questo poiché il sapere era dato ed era certo. In un mondo in cui le cose si devono costruire e inventare ex novo ogni giorno, in cui i saperi si ricombinano, in cui le scoperte sono continue, non c’è una strada e forse non c’è neanche una verità, non serve la gomma o il bianchetto per cancellare, l’errore diventa un elemento fondamentale.
Oggi i ragazzi trovano lavoro soprattutto al Nord impiegati nelle aziende e nelle pubbliche amministrazioni curando i social network. Quello che era il loro tempo perso di ieri, quando smanettavano sul cellulare o sul tablet, oggi diventa competenza e risorsa.
Lo sguardo normativo o prescrittivo, falsamente consapevole di quello che sarebbe successo domani, probabilmente li guardava decretando cosa fosse giusto e cosa sbagliato, inconsapevole che quel “tempo perso” era tempo di formazione di competenze.
I ragazzi hanno bisogno di esperienze perché è ciò che gli consente giorno per giorno di scrivere il loro manuale, poiché il manuale unico per tutti non c’è. Lavoriamo e facciamo laboratori sugli errori perché sono portatori di informazioni, smettiamola di nasconderli.
La circolazione dei saperi oggi è quanto mai orizzontale e lo spostamento della frontiera che sta avvenendo nelle loro vite non passa prevalentemente nello scambio da adulto a giovane, ma molto di più da fratello a fratello o sorella maggiore (per intendere la comunità dei pari). E’ utile, in qualche modo, chi è avanti appena un passo a te rispetto all’esperienza.
Oggi c’è bisogno di lavorare per gruppi differenziati per età, differenziati per discipline, c’è bisogno di situazioni estremamente miste e di tutto il capitale di esperienze possibili date in una comunità: c’è bisogno della visione dei bambini che sanno vedere cose che noi adulti non sappiamo più vedere, c’è bisogno dello spirito pionieristico dei giovani, c’è bisogno ancora dell’esperienza dell’adulto in chiave nuova. (…)