L’agromafia è un fenomeno che non si arresta, procede spedito sui binari del malaffare e attualmente il suo volume d’affari annuale è pari a 21,8 miliardi di euro, il 30% in più rispetto all’ultimo anno. Una cifra stimata per difetto, com’è logico, dal momento che non sono compresi i guadagni derivanti dalle più svariate aree del mondo da parte delle organizzazioni criminali. A spiegarlo in maniera molto chiara è il Rapporto Agromafie 2017 di Coldiretti, Eurispes e Osservatorio sulla criminalità nell’agricoltura e sul sistema agroalimentare, in base a cui racket, usura, pascolo abusivo, estorsione nelle campagne, prosperano. Prodotti che poi arrivano sulle nostre tavole con una connotazione “internazionale” e non ci sarebbe nulla di male se il tutto seguisse procedure legali con tanto di tracciabilità del prodotto. Ma se parliamo di agromafie in questo senso è proprio perché sembra che il marketing della contraffazione abbia attecchito molto bene nel nostro Paese, con buona pace per il prestigioso Made in Italiy.
Non a caso, Giovanni Legnigni (vicepresidente del Consiglio superiore per la magistratura) e Andrea Orlando (ministro della Giustizia) fanno notare che «se i fenomeni si internazionalizzano, va da sé che gli strumenti e le normative devono tendere anche loro a una dimensione sovranazionale. C’è bisogno di una procura europea, l’Italia è in prima linea in questa battaglia anche se purtroppo questo sforzo non è assecondato da tutti i Paesi europei».
Leggendo il Rapporto Agromafie 2017, appare chiaro come le organizzazioni criminali abbiano studiato a fondo i vantaggi derivanti dalla globalizzazione, dalle nuove tecnologie a disposizione, per inserirsi e inquinare il mercato, a cominciare dal fenomeno del caporalato. Da qui, l’abbattimento dei prezzi e l’annientamento della concorrenza, fino a determinare il prezzo dei prodotti che acquistiamo nei supermercati o consumiamo nei ristoranti. Un circolo criminale che non riguarda solo il Sud Italia ma dilaga anche nel Nord del Paese, soprattutto a Genova e a Verona, dove la mafia ha contaminato la filiera olearia nel primo caso e quella dell’importazione illegale dei suini dal Nord Europa (spacciati come italiani) nel caso di Verona, cui si aggiunge l’adulterazione di rinomate bevande alcoliche e superalcoliche.
Rispetto a questo argomento, Maurizio Martina, ministro delle Politiche agricole, invita a «non abbassare mai la guardia per quanto riguarda tutta la filiera dell’agroalimentare perché, purtroppo, i temi legati alle infiltrazioni della criminalità organizzata anche in agricoltura non vedono più differenze tra Nord e Sud del Paese e nessun territorio si può dire fuori da questa minaccia».
Le conclusioni del Rapporto Agromafie 2017 sono più che allarmanti: 1 prodotto su 5 di quelli che troviamo nei nostri supermercati giunge in Italia dall’estero, aggirando le normative in materia di tutela dei lavoratori. Più nel dettaglio, oltre il 30% dei prodotti agroalimentari che mangiamo sono coltivati o allevati all’estero con un’impennata di importazioni proveniente dai Paesi extracomunitari dove non sono in vigore gli stessi diritti sociali dell’Unione Europea. Praticamente un “caporalato nascosto” che coinvolge riso, passate di pomodoro cinesi, frutta proveniente dal Sud America come dall’Africa, olio d’oliva, zucchero di canna, olio di palma e tantissimi altri alimenti generati dallo sfruttamento illegale dei lavoratori e – peggio ancora – dei lavoratori minorili coinvolti, secondo l’Organizzazione internazionale per il lavoro, in un numero che sgomenta: 100 milioni di bambini.