Per molte donne l’appuntamento mensile con il ciclo mestruale non è esattamente una passeggiata, perché costrette a fare i conti con dolori all’addome, mal di testa, dolori articolari e quant’altro. Spesso i comuni antidolorifici non sono sufficienti a lenire il dolore e in questo caso si tratta di dismenorrea che significa semplicemente soffrire di mestruazioni particolarmente dolorose e invalidanti. Per questa ragione, le deputate del Partito Democratico Romina Mura, Daniela Sbrollini, Mara Iacono e Simonetta Rubinato – seguendo anche gli esempi degli altri Paesi – hanno presentato una proposta di legge attualmente in discussione alla Camera per ottenere il congedo mestruale. In sostanza, 3 giorni di permesso al mese completamente retribuiti per chi – con i dovuti accertamenti – soffre di dismenorrea.
Questo problema coinvolge una percentuale media di donne pari al 60% in Italia anche se le stime sono comprensibilmente variabili. In molti casi la donna, dalla lavoratrice alla studentessa, è costretta a rimanere a casa per i forti dolori, mentre in altre situazioni stoicamente si trascina verso il proprio ufficio o banco di scuola.
È importante chiarire fin da subito che non tutte le donne, in quanto tali, potranno presentare la propria richiesta. Indispensabile il certificato medico che attesti la dismenorrea. Ottenuto questo, si potranno usufruire di 3 giorni di congedo al mese a piena retribuzione. La proposta di legge specifica inoltre che i giorni in cui si rimarrà a casa non dovranno essere equiparati o compresi nei giorni di altra malattia o varie cause di assenza dal lavoro. Il certificato dovrà essere rinnovato annualmente entro il 31 dicembre, mentre entro il 30 gennaio dell’anno successivo bisognerà presentarlo al proprio datore di lavoro.
Sempre in base alla proposta di legge, potranno godere del congedo tutte le donne lavoratrici con contratto di lavoro subordinato, o parasubordinato, a tempo pieno o part-time, a tempo indeterminato, determinato o a progetto.
Per motivazioni differenti, il congedo mestruale esiste in diversi Paesi dal mondo da anni. In Giappone, addirittura, già dal 1947 mentre in Indonesia dal 1948. Lo stesso provvedimento è stato adottato nel 2001 in Sud Corea e in Taiwan nel 2013 ma in questi due casi la ragione è culturale: in Oriente è molto diffusa la credenza che le donne debbano riposare nei giorni del menarca per non incorrere in difficoltà durante il parto. Dunque si tratta di una tutela non tanto a favore delle donne quanto mirata alla protezione della crescita demografica.
Se oggi in Italia è stata presentata questa proposta di legge è sulla scia del famoso caso della Coexist, un’azienda britannica, che aveva deciso di introdurre nel proprio statuto l’esenzione per le impiegate nei giorni di ciclo mestruale a cadenza mensile. Una decisione che poi risultò vincente perché le donne, una volta ripreso il lavoro, si dimostravano più riposate e più produttive. Così fece anche la Nike, nel 2007, ottenendo anch’essa buoni risultati.
Inutile però pensare che in Italia le cose saranno così semplici come all’estero. La nostra situazione, secondo gli ultimi dati Istat del 2015, mostra un Paese in cui 1 donna su 3 abbandona il lavoro dopo il primo figlio. Inoltre, qui dobbiamo fare i conti con un forte rialzo delle occupazioni in nero che ovviamente costituiscono un’aggravante.
Esiste poi il penoso discorso dell’uguaglianza di genere sul lavoro: a parità di titolo di studio, l’uomo viene nella maggioranza dei casi preferito alla donna e retribuito di più. Pertanto, in un Paese come il nostro è auspicabile considerare anche il rovescio della medaglia: encomiabile la proposta di legge ma impossibile non prendere in considerazione certi effetti collaterali, primo fra tutti l’evenienza che il datore di lavoro, fatta la legge, abbia una ragione in più per preferire gli uomini.