Natale è festa pagana ma da tempo, per molti, è diventata festa cristiana. Negli ultimi anni, però, al Natale del solstizio d’inverno e al Natale della nascita di Gesù si è sovrapposto il Natale consumistico, una festa “importante” ma priva di senso.
In redazione avevamo due possibili scelte: continuare anche in questi giorni a trattare i nostri temi consueti, limitandoci al più a inserire qualche piccolo riferimento grafico alle festività, oppure “prendere sul serio” il Natale e dedicare attenzione a questa ricorrenza, cercando di andare oltre la ritualità.
Abbiamo optato per questa seconda scelta. Siamo andati alla ricerca di qualche riflessione “fuori dal coro” e senza riferimento all’attualità, che ci aiutasse a capire il senso più profondo del Natale. Come vedrete, da laici, abbiamo chiesto aiuto a “uomini e donne di fede”. Con loro faremo un breve cammino che ci porterà al 25 dicembre. Buona lettura.
Adriana Zarri, Un eremo non è un guscio di lumaca
Quest’anno, ho fatto due presepi: uno in casa e un secondo nella stalla. Disponendo di una stalla, con tanto di greppia, mi pareva che quella fosse la collocazione più adeguata: tanto che poi ho deciso di lasciarlo, anche durante l’anno. Anziché un’altra immagine sacra, egli è lì, tra il disordine e i topi, come forse neanche a Betlemme gli mancavano. Poiché accanto alla casa non si coltiva grano, non ho paglia; e tutti gli anni il fornitore è Giacomo. Viene con una mezza balla (e me ne basta molto meno; il resto farà da strame per le bestie) e io ci colloco sopra la statuina di gesso. È un presepe da poveri. La paglia, Gesù Bambino e basta (in quello di casa, per ornamento, c’è solo un volo d’angeli: una ceramica di Faenza, essa pure un regalo di amici di là). È un presepe da poveri, ma è il signore che seguita a nascere, ogni giorno: e non finisce mai di nascere, e non finisce mai di morire, e non finisce mai di risorgere, nella carne e nel mondo. Nasce non tanto «nell’anima», come un’ascesi tutta spiritualistica ci ha insegnato a ripetere: nasce nella vita; nasce dal nostro ascolto, dalla nostra attesa, dal nostro umile e docile accordarci con i ritmi profondi delle cose. E noi gli siamo utero, cesto, nido.
L’incarnazione non è una storia privata: è la storia del mondo e Cristo non nasce solo nella greppia. Il Verbo sposa la terra e e si fa terra, carne, tempo, storia, finitezza, condizionamento, situazione umana nella sua complessità, e nella sua povertà, vita del mondo, con la sua concretezza e i suoi limiti. E la vita – questa vita assunta da Dio – è fatta di me, di voi, di storie e destini innumerevoli, di vicende cosmiche e piccoli accadimenti quotidiani. Anche di neve è fatta, la vita, e di germogli che dormono, di gatti che ronfano, di stufe che brobottano e di polente che inondano le tavole come lune d’inverno.
Dopo gli incontri con gli amici, che hanno sfidato freddo e neve per i doni e gli auguri natalizi, torna la solitudine compatta, non mi sono lasciata sedurre dai tanti inviti. Per le feste una persona sola sembra che faccia pena (che pena sprecata, nel mio caso!) e gli inviti si moltiplicano. Ma io ho sempre difeso il mio Natale, anche quando non ero un’eremita, ma il monachesimo ce l’avevo dentro, in un bisogno di silenzio; e così Pasqua e le festività importanti. Se mai un pranzo potrà essere accettato nei giorni successivi.
Ricordo quando abitavo a Roma, in una di quelle case con le pareti di carta velina, con i rumori che passavano muri, soffitti, pavimenti. E mi giungeva, confuso, il chiacchiericcio vuoto di tavolate che si intuivano convenzionali, con discorsi di nulla. Io «là sola come un cane» facevo pena a loro: ma loro facevano assai più pena a me. Sentivo il pomeriggio che naufragava in chiacchiere sempre più stanche; e il mio silenzio, invece, a onta di quelle interferenze, si faceva più denso, più compatto, più felice. Tanto più adesso, che la mia casa ha solide pareti contadine e al di là c’è soltanto la stalla e lo starnazzare dei polli.
I mesi freddi – l’ho già detto – sono più solitari. Il periodo precedente il Natale è una parentesi di incontri – dolce come sarà poi dolce il silenzio – ma dopo la parentesi si chiude. La chiude il freddo, l’inclemenza del tempo, la sorda barriera delle nebbie, il desiderio di ciascuno di restare più in casa, di coltivare la domesticità. Ed io ricado nel bianco silenzio dell’inverno, illuminato dalla neve, come su di un lenzuolo bianco che accoglie la mia contemplazione. Sono stata grata agli amici per essere venuti a salutarmi; ora sono loro grata perché mi lasciano in silenzio.
Il telefono aveva squillato a lungo, con chiamate da tutte le parti d’Italia: di amici e anche di sconosciuti; ed era stata una dolce manifestazione di affetto. Ora tace anche lui. Sul tavolo ho ancora i segni delle festività: resti di panettoni e di liquori con cui tanti hanno voluto ricordarmi. E io prolungo le ricorrenze liturgiche, contestando le stolte contrattazioni tra Vaticano e stato per la riduzione delle feste che hanno abolito l’Epifania in favore dell’Immacolata. Si capisce proprio che le trattative sono state condotte da diplomatici che non sanno nulla di storia, di liturgia e di teologia. Ma al Molinasso l’Epifania si festeggia ancora, con la medesima solennità di un tempo. Questo Natale dei pagani, questo Natale ecumenico ha, nella mia cappella, la risonanza che merita e che la storia e la liturgia gli hanno decretato fino a oggi.
Gesù Bambino nella stalla si sta ambientando a un clima certo più rigido di quello di Betlemme. Un topo gli ha rosicchiato la vestina scoprendo un angolo di carne nuda. L’ho ricoperto con la paglia senza eccessive preoccupazioni. Dopo tutto, se voleva, poteva mandarlo ben via; se l’ha tenuto vuol dire che il topettino gli piaceva, e magari ci ha conversato un poco.
Del resto il mio Signore non è esigente. L’ho abituato bene e, se non ci sono fiori, non pretende che vada dal fioraio: costa troppo. Si contenta di qualche pannocchia di granturco, qualche zucchina ornamentale, qualche fiore secco, qualche ramo. Del resto l’idea che soltanto i fiori freschi facciano decorazione è molto restrittiva e molto ingiusta verso altri pezzi di natura non meno belli: come un cesto di frutta, o un’erica seccata che serba il suo delicato color viola, un mazzo di spighe (bellissime le varietà dei prati: bellissime verdi ed essiccate); o anche soltanto un ramo. I biancospini hanno rami elegantissimi. D’inverno la mia casa non ha fiori, ma è sempre adorna di qualche pezzo di mondo che mi entra dentro a farmi compagnia. In questo momento, in cappella, c’è un nido d’uccello con le ovette. Naturalmente non sono andata a rubarlo sulla pianta, come fanno i monelli: l’ho trovato ai piedi di un albero e l’ho portato ai piedi del Signore. E credo proprio che gli piaccia. Se non gli piacesse, dimostrerebbe di avere scarso gusto, ed è un’ipotesi che non posso prendere in considerazione.