A volte capita di leggere notizie in merito a episodi di bracconaggio, ma il più delle volte si riferiscono a eventi “lontani”, spesso africani, quasi sempre collegati a specie animali a rischio di estinzione proprio per la diffusione di questa forma illegale di caccia.
Ad esempio, “lo scorso 30 aprile volte di fumo scuro, denso, si sono levate dal territorio keniota. Le disposizioni del presidente Uhuru Kenyatta sono state chiare: requisire l’avorio rilevato sul mercato nero e formarne enormi pire da destinare alle fiamme. La crescente domanda dei mercati asiatici sta portando gli elefanti all’estinzione”. Nell’occasione il presidente Kenyatta ha dichiarato “Nessuno, e ripeto, nessuno, dovrà ottenere profitto dalla vendita di avorio, dal momento che questo commercio è portatore di morte per i nostri elefanti e per il nostro patrimonio naturalistico”. Per questo oltre 100 tonnellate di avorio, “un quantitativo valso la vita a circa 7 mila pachidermi” sono state consegnate al fuoco.
Come ricorda Andrea Braga nell’articolo dal titolo “Il bracconaggio, la guerra dimenticata dell’Africa”, pubblicato su Il Caffè geopolitico del 30 maggio scorso (leggi l’articolo), la storia del bracconaggio è antica e oggi vive una stagione di recrudescenza per la crescente domanda asiatica, cinese in particolare. “Tra gli anni Settanta e Ottanta l’Africa si trovò a fronteggiare una crisi simile, per proporzioni, a quella odierna. Arrivando a picchi di uccisione di 100 mila esemplari d’elefante l’anno, e registrando un declino del 97,6% nella popolazione del rinoceronte nero nel periodo compreso tra gli anni Sessanta e Ottanta, nel 1989 a Nairobi venne organizzato uno storico rogo di 12 tonnellate di avorio sequestrate ai bracconieri”.
Ma il tema del bracconaggio, naturalmente, non riguarda solo l’Africa, i grandi mammiferi e l’avorio. D’altra parte il termine deriva dal francese braconner, in origine “cacciare col bracco” e, stando al vocabolario Treccani, significa “caccia e uccellagione abusiva in tempi, luoghi o con mezzi non consentiti dalla legge o che si eserciti senza la necessaria licenza”. Una pratica “domestica” che, luogo per luogo, assume forme diverse.
Quali sono le caratteristiche del bracconaggio in Italia? Ce ne parla diffusamente il nuovo Rapporto del WWF “Furto di Natura. Storie di bracconaggio Made in Italy”, presentato in occasione della Giornata Oasi del 2016 che si terrà il 2 ottobre (leggi l’articolo). Leggendo il Rapporto scopriremo di non essere affatto immuni dalle pratiche del bracconaggio, sia per motivi commerciali e speculativi, sia per malintese tradizioni locali. Un quadro che, senza avere i contorni drammatici del continente africano, ci impone attenzione e vigilanza per contrastare comportamenti illegali più diffusi di quanto si possa supporre.
Di seguito un estratto della prima parte del Rapporto. Per la consultazione del testo integrale andare al link.
Il termine “bracconaggio”
Se si cerca il significato del termine “bracconaggio” possiamo constatare come questa parola non spieghi a pieno il fenomeno illegale. Chi parla di “caccia di frodo”, chi addirittura tenta una giustificazione richiamando le “tradizioni locali”, quando nei tempi antichi la selvaggina era considerata cosa di nessuno (“res nullius”) e serviva per sfamare grandi fasce di popolazione che non avevano altro accesso alla carne. Essendo poi subentrata la proprietà privata, anche la cosiddetta “selvaggina” divenne di proprietà privata dei padroni delle terre ed il bracconaggio venne quindi considerato un reato, in quanto furto di beni altrui.
Con l’ultima legge sulla caccia (l. 157/1992) la fauna selvatica ha acquisito l’importante status di “patrimonio indisponibile dello Stato”.
Ma il concetto di “bracconaggio”, secondo noi, è meglio reso dall’espressione “Uccisione, cattura e commercio illegale di fauna selvatica”. E la parola su cui è necessario soffermarsi è l’aggettivo “illegale”. Riteniamo che il richiamo alle “tradizioni” che sarebbero all’origine di alcune forme di bracconaggio sia inopportuno, perché non si può e non si deve fornire alcun alibi “culturale” a delle pratiche completamente illegali con un impatto fortemente negativo sulla biodiversità. Come WWF non ci stancheremo mai di sottolineare ed evidenziare il fatto che si tratta di comportamenti illegali, di reati che danneggiano gravemente un bene dello Stato e, quindi, della collettività. Un patrimonio prezioso di biodiversità di cui lo Stato e la collettività sono custodi e responsabili nei confronti della comunità internazionale e che deve essere conservato e difeso anche attraverso mezzi efficaci di contrasto e repressione dei reati che colpiscono la fauna selvatica, e con campagne di sensibilizzazione ed informazione.
In realtà il termine “bracconaggio” è ormai noto e usato nel linguaggio comune, ma non è codificato in leggi e norme. A volte corrisponde con i “reati venatori”, quando si tratta di atti illeciti compiuti durante attività riconducibili alla caccia intesa in senso tradizionale, in altri casi si tratta di illeciti penali non riconducibili strettamente ad attività di caccia (ad esempio il furto dai nidi, le catture illegali con mezzi vietati, l’uso di veleni, etc.).
E’ bene anche ricordare che spesso la parola “bracconaggio” si lega solo all’uccisione illegale di uccelli (anche tramite pratiche di caccia illegale di cui diremo in seguito). Invece, sebbene gli uccelli siano la categoria di animali maggiormente colpiti dalle pratiche illegali, per numero di specie e dimensione del fenomeno, occorre evidenziare che anche altre specie in Italia sono oggetto di uccisione, cattura e commercio fuori legge, compresi animali superprotetti in quanto rari e preziosi come lupi, orsi, cicogne, aquile reali e ogni altro genere di rapace, persino lontre, delfini e fenicotteri (ricordiamo un caso recente accaduto in Sardegna, denunciato dal WWF, di due fenicotteri trovati impallinati alla periferia di Oristano).
Cosa dice la legge
E’ bene ricordare che la caccia può essere esercita solo entro i limiti della Legge 157/92 che stabilisce le specie, i periodi, i mezzi e le aree di tutela in cui non si può cacciare. La legge 157/92 si basa sul principio secondo cui la fauna selvatica appartiene al patrimonio indisponibile dello Stato e l’esercizio dell’attività venatoria è consentito, purché non contrasti con l’esigenza di conservazione della fauna selvatica (art. 1).
Lo Stato può derogare a tale principio nelle forme e nei limiti stabiliti dalla legge, rilasciando al cacciatore una concessione (la cosiddetta “licenza di caccia”) al fine di abbattere esclusivamente le specie elencate e nei periodi, orari, mezzi, stabiliti dalla legge stessa. Sempre la legge sulla caccia stabilisce che “È vietata in tutto il territorio nazionale ogni forma di uccellagione e di cattura di uccelli e di mammiferi selvatici, nonché il prelievo di uova, nidi e piccoli nati” (art.3) e che “L’attività venatoria è consentita con l’uso del fucile con canna ad anima liscia fino a due colpi (…) nonché con fucile con canna ad anima rigata (…). Sono vietati tutte le armi e tutti i mezzi per l’esercizio venatorio non esplicitamente ammessi dal presente articolo” (art. 13).
La stessa legge stabilisce che è vietato, soggetto a sanzioni penali e considerato atto di bracconaggio:
(…)
Le forme di bracconaggio
Il fenomeno del bracconaggio in Italia è stato oggetto di un’inchiesta nel 1990, condotta dalla LIPU (Lega Italiana protezione Uccelli) due anni prima dell’entrata in vigore della vigente legge n. 157/1992 sulla protezione della fauna e la regolamentazione della caccia. Sempre la LIPU ha più recentemente (2002) realizzato un’ulteriore analisi approfondita del fenomeno. Il tema del bracconaggio è stato affrontato anche dal WWF in più contesti politici e istituzionali, fra questi è importante segnalare il contributo “Tutela delle specie migratrici e dei processi migratori” fornito dall’Associazione al Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare (2010).
E’ interessante evidenziare come ad oggi manchi ancora un’approfondita analisi e valutazione del fenomeno, estremamente nocivo per il suo impatto sulla biodiversità del paese e su quella della Comunità Europea (specie migratrici che vengono uccise nel nostro paese), realizzato dalle autorità competenti, ovvero il Ministero dell’Ambiente.
Dalle varie analisi e indagini analizzate e dall’esperienza sul campo acquisita in quasi 50 anni di lavoro nel contrasto del bracconaggio, possiamo dire che le forme di bracconaggio, o se si preferisce di reati contro la fauna selvatica, più diffusi in Italia sono riconducibili a queste tipologie:
La dimensione del bracconaggio in Italia: Overview
L’Italia per la sua particolare conformazione geografica presenta un territorio estremamente diversificato. Passando dalle più alte cime d’Europa, nel cuore del continente, sino a raggiungere le latitudini più meridionali, corrispondenti a quella della Tunisia, si attraversa una serie di ambienti tra loro differenti. Questo fa sì che nel nostro Paese vi sia una grande varietà di specie selvatiche legate ad habitat molto diversi.
A rendere più complessa la situazione, l’Italia è interessata da importanti rotte di migrazione dell’avifauna che vengono seguite da milioni di individui e che spesso determinano imponenti concentrazioni di uccelli in periodi e in ambiti territoriali relativamente circoscritti (ad esempio in corrispondenza di particolari punti quali stretti, promontori, piccole isole o valichi montani).
Queste due circostanze da sole sarebbero già sufficienti a giustificare l’esistenza di forme di bracconaggio differenziate da regione a regione. Tuttavia per comprendere appieno la complessità del fenomeno occorre considerare come alla grande eterogeneità ambientale dell’Italia corrisponda una altrettanto estesa varietà di attività non solo venatorie (ma anche di prelievo a fini commerciali o domestici) che si sono andate differenziando nel corso della storia e che vengono annoverate nella categoria del bracconaggio.
Come è ben noto, sebbene gli uccelli siano il taxon maggiormente colpito, per numero di specie e dimensione del fenomeno, e nonostante sia in atto una procedura Pilot dell’UE su “uccisione, cattura e commercio illegali di uccelli”, anche altre specie in Italia sono oggetto di uccisione, cattura e commercio. Oltre agli uccelli, non sfuggono a questa pratica criminale i pesci marini e d’acqua dolce, i rettili (come ad esempio le tartarughe marine e di acqua dolce) e molti mammiferi sia terrestri sia marini.
Una piaga silenziosa e drammatica che rende quindi necessaria e urgente un’azione di repressione completa ed efficace.
Le forme più diffuse e conosciute di bracconaggio sono oggi spesso radicate nel territorio e nel contesto culturale, troppo spesso tollerate o protette da un diffuso atteggiamento di compiacenza e omertà. Di seguito gli esempi più noti:
Né deve stupire che alcune di queste forme di bracconaggio siano estremamente difficili da contrastare in quanto praticate in modo diffuso e sommerso in comunità fortemente interessate a proteggere i propri interessi e le proprie cosiddette tradizioni. Ancora oggi è praticamente impossibile quantificare il numero di persone coinvolte e il numero di animali uccisi e prelevati: quello che è certo è che il bracconaggio in Italia ha raggiunto in alcune parti del Paese una dimensione preoccupante ed è una minaccia molto seria per la fauna italiana.