Le bufale sono un argomento di grande attualità divenute talmente virali da costituire un fenomeno sociologico per cui in molti hanno condotto studi su studi per capire certi perché, e primo fra tutti, da dove esse originino e – punto cruciale – perché si diffondano in maniera tanto rapida.
Inevitabile non chiamare in causa i social media che in questo senso sono i diffusori più rapidi e immediati di notizie, certo, ma purtroppo non sempre vere ma al contrario frutto della fantasia di qualcuno. È purtroppo accertato che molti utenti spesso condividono post, articoli e le cosiddette “catene di sant’Antonio” senza neppure scomodarsi a leggere per intero il testo che si sta diffondendo. Molte di queste persone, si limitano alla semplice lettura del titolo. Già questo, capirete, segna un goal importante a favore delle fake news e della disinformazione in generale.
Ma c’è di più, e questo è veramente interessante: secondo un’approfondita ricerca condotta dall’Istituto di studi avanzati di Lucca e della Sapienza Università di Roma, sarebbe determinante il fenomeno della polarizzazione che ci accingiamo subito a spiegare. Consciamente o meno, ognuno di noi tende a seguire, per esempio su Facebook, un numero limitato di testate giornalistiche o fonti varie di cui condividiamo l’orientamento, i valori e i punti di vista. Se a una prima analisi questo risulta comprensibile è però altrettanto vero che in questo modo diamo a noi stessi una possibilità molto ridotta di cambiare le nostre opinioni, cosa che è notoriamente sintomo d’intelligenza.
Certo, il web è un oceano tra le cui acque è possibile rintracciare praticamente tutto, in qualche maniera siamo spinti a costringere dentro una barca certe informazioni. Però dagli studi condotti risulta che diamo credito a quelle che rispondono alla nostra morale e ai valori personali; non di rado chi condivide una bufala viene sfiorato dal dubbio che la notizia non sia veritiera ma persevera nell’atteggiamento e condivide lo stesso.
Dice Walter Quattrociocchi, coordinatore dello studio: «Abbiamo notato un effetto polarizzante ovvero la tendenza dei social network a formare comunità segregate». Di qui anche la tendenza di molti a riunirsi in gruppi dove chi la pensa diversamente viene espulso con un semplice click. È un po’ come, insomma, se ci sentissimo smarriti, avessimo paura del libero confronto e pertanto preferissimo una parvenza di sicurezza che rafforzi la nostra idea di mondo.
Se umanamente è possibile comprendere tali reazioni, altrettanto umanamente è giusto ricordare che dalla disinformazione non nasce nulla di buono se non il caos, l’ignoranza che alimenta l’ignoranza, i pensieri complottisti che danno luogo a razzismi, odi poco cordiali, convinzioni folli.
Lo studio, servendosi di metodi di analisi statistica, ha osservato le interazioni di 376 milioni di utenti Facebook con più di 900 agenzie di stampa nell’arco temporale di 6 anni (2010 – 2015) e il risultato ce lo spiega Quattrociocchi: «Usando l’analisi quantitativa, abbiamo mostrato che più un utente è attivo, più tende a concentrarsi su un numero limitato di fonti di notizie», e fin qui nulla che non abbiamo già detto, per quanto la cosa vada di per sé contro ogni logica. Però poi subentrano fattori preoccupanti, e questo peggiora le cose mentre la bufala ingrassa: pochi verificano le fonti, un numero ancora più limitato di persone fa delle ricerche per dei riscontri, preferendo aderire al carattere manicheo delle comunità chiuse sul web.
Le numerose condivisioni, “i like”e i commenti rendono virale questo processo perché i social media, per loro stessa natura, diffondono con maggiore rapidità e in maniera massiva i contenuti più votati.
Intendiamoci, non si vuol demonizzare nessuno e men che meno Facebook, perché esattamente come imperano le bufale esiste anche l’aspetto contrario, ossia la notizia vera e comprovata che si diffonde altrettanto velocemente. Pertanto, ben vengano i social media, è il messaggio che lanciano gli studiosi, ma attenzione a non cadere in trappole dalle quali poi uscire è difficile.