Estate “indimenticabile” dal punto di vista ambientale. A dar retta ai meteorologi abbiamo registrato sei ondate di caldo africano mentre siamo in attesa della settima, anche questa dal nome poco rassicurante: Polifemo. Ormai non ci meravigliamo più se la temperatura raggiunge i quaranta gradi. Ma in realtà non siamo pronti ad affrontare condizioni climatiche che, fino a qualche anno addietro, avremmo definito “estreme”. Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti. La siccità è la più diretta ed evidente. Dal Nord al Sud l’agricoltura è in gravissima difficoltà, come dimostra il recente dossier di Coldiretti. Molte Regioni hanno richiesto il riconoscimento dello stato di calamità naturale e il ministro Martina lavora per la sospensione dei mutui contratti dalle aziende agricole, per il blocco dei contributi e per nuove modalità di accesso al Fondo per il ristoro dei danni.
È bene ricordare che quando non si muore di caldo sempre più spesso siamo vittime di grandinate, bombe d’acqua e conseguenti inondazioni. Per fortuna non siamo ai livelli del Nepal o della Sierra Leone, ma non mancano danni e disagi, dal Varesotto a Cortina, dalla costa teramana a quella della provincia di Reggio Calabria, solo per citare gli episodi più recenti. Naturalmente questo tipo di precipitazioni non apporta alcun sollievo alla strutturale carenza idrica delle zone colpite e, quindi, il giorno dopo siamo a secco come e peggio di prima.
Alla siccità potremmo sommare l’infinita sequela degli incendi. A luglio abbiamo riferito della contabilità degli ettari andati a fuoco presentata da Legambiente: in poco più di sei mesi quanto nei dodici mesi precedenti. Ma tra la fine di luglio e il mese in corso le quantità sono in impressionante ascesa. Come sempre le regioni del Mezzogiorno in cima alla classifica. Certo, il vento caldo aiuta il propagarsi delle fiamme ma, quasi sempre, ad appiccare gli incendi è la mano dell’uomo. Dobbiamo prendere atto delle cause più bizzarre: dalla solita criminalità organizzata che cerca aree di speculazione o copre i misfatti compiuti agli immancabili piromani, dagli “sbadati” delle cicche di sigaretta agli improvvisati cultori del barbecue in montagna, dai precari forestali ai “volontari dei vigili del fuoco”, vera novità di stagione. L’esito, però, è sempre lo stesso: aree pregiate devastate, vegetazione in fumo, vite in pericolo.
Per non farci mancare nulla è arrivato anche il terremoto di Casamicciola. Quarto grado della scala Richter, poca cosa rispetto ai recenti terremoti del Centro Italia, ma quanto basta a provocare 2 morti e 39 feriti e la distruzione di un numero elevato di abitazioni. Non è il caso di addentrarsi in aspetti tecnici quali la scarsa compattezza delle rocce sedimentarie o la superficialità della scossa. Resta il fatto che un terremoto di lieve entità produce gravi danni in un paese “avvertito” degli effetti del terremoto del 1883. E non un terremoto qualunque: 2.313 morti di cui 1.784 a Casamicciola su 4.300 abitanti.
A cosa serve questa drammatica elencazione? Solo a ricordarci che l’ambiente è una questione estremamente seria e il nostro Paese sembra non essersene accorto. Non abbiamo programmi territoriali di mitigazione e adeguamento ai cambiamenti climatici né piani di prevenzione e gestione dei rischi. Non riusciamo a immaginare un utilizzo sensato delle risorse idriche disponibili. Non mettiamo mano al rinnovo delle reti e all’utilizzo di tecnologie moderne e adeguate, soprattutto in agricoltura. Non predisponiamo modalità di prevenzione degli incendi boschivi e anche gli interventi di spegnimento lasciano a desiderare. Non riusciamo a far decollare un piano di adeguamento sismico neppure dei soli edifici pubblici. E, nonostante le calamità naturali ricorrenti, solo l’85% dei Comuni si è dotato di un piano di protezione civile, sperando che dentro ogni fascicolo ci siamo soluzioni reali e non adempimenti burocratici. Per fortuna non è possibile generalizzare. Ma, anche in questo caso, sono disposto a scommettere che la situazione complessiva del Centro Sud sia peggiore di quella del Centro Nord.
A ragione si potrà ben dire che affrontare questi nodi richiede risorse ingentissime. Ovviamente. Ma la crisi e la scarsità di risorse disponibili non possono costituire gli alibi sempre pronti per giustificare ogni inadempienza. Al più potranno incidere sui tempi di piena attuazione di una rinnovata strategia ambientale e di tutela del territorio. Il problema è che i segnali all’orizzonte sono troppo labili e incerti.
Pessimismo esasperato? Assolutamente no. Al contrario. I segnali positivi, a volerli vedere, non mancano: crescente sensibilità ambientale, nuovi stili di vita, studi di settore, pianificazioni di ogni tipo, buone pratiche e via dicendo. Tutte esperienze preziose. Ciò che manca è la consapevolezza dell’urgenza, la volontà di affrontare queste tematiche in modo radicale. Troppi convegni nei quali in tanti siamo apparentemente d’accordo su analisi e strategie di intervento. Ma gli interventi sono ancora davvero troppo modesti. E i comportamenti spesso confliggono con le affermazioni.