I vestiti che indossiamo sono puliti? Una domanda che potrà sembrarvi strana e alla quale sicuramente sarete portati a rispondere “sì”. Ma avere abiti puliti non significa solo che essi siano freschi di bucato e privi di cattivi odore o di macchie. Significa soprattutto che per realizzarli non sia stata messa in atto nessuna forma di sfruttamento lavorativo.
Ed è qui che nascono i primi problemi, perché chi di noi potrebbe metterci la mano sul fuoco?
A focalizzare l’attenzione su questo tema è il nuovo rapporto della Clean Clothes Campaign, la campagna che in Italia prende il nome di Abiti Puliti (qui il sito) e che consiste in una rete di più di 250 partner che mira al miglioramento delle condizioni di lavoro e al rafforzamento dei diritti dei lavoratori dell’industria della moda globale. La sezione italiana lavora in coordinamento con le coalizioni attive in 17 Paesi europei e in collaborazione con le organizzazioni di diritti del lavoro in Canada, Stati Uniti e Australia.
Tornando al rapporto, presentato in questo mese di novembre e dal titolo “Made in Europe”, esso fotografa condizioni di grave sfruttamento nella produzione di abbigliamento e calzature nel nostro Continente.
Il documento rivela i salari da fame endemici e le dure condizioni di lavoro nell’industria tessile e calzaturiera dell’Est e Sud-Est Europa. Ad esempio, molti lavoratori in Ucraina, nonostante gli straordinari, guadagnano appena 89 euro al mese in un Paese in cui il salario dignitoso dovrebbe essere almeno 5 volte tanto. Tra i clienti di queste fabbriche ci sono marchi globali come Benetton, Esprit, GEOX, Triumph e Vera Moda. Dunque marchi molto noti che magari indossiamo ogni giorno, ignorando il dramma che c’è dietro.
Per questi marchi i Paesi dell’Est e Sud-Est Europa rappresentano paradisi per i bassi salari e addirittura molti brand enfatizzano l’appartenenza al “Made in Europe”, suggerendo con questo concetto “condizioni di lavoro eque”. In realtà, molti dei 1,7 milioni di lavoratori e lavoratrici di queste regioni vivono in povertà, affrontano condizioni di lavoro pericolose, tra cui straordinari forzati, e si trovano in una situazione di indebitamento significativo. Troppo spesso i salari mensili della maggior parte della forza lavoro femminile raggiungono appena la soglia del salario minimo legale, che varia dagli 89 euro in Ucraina ai 374 euro in Slovacchia. Ma il salario dignitoso, quello che permetterebbe a una famiglia di provvedere ai bisogni primari, dovrebbe essere quattro o cinque volte superiore e in Ucraina, ad esempio, questo vorrebbe dire guadagnare almeno 438 euro al mese.
Le interviste a 110 lavoratrici e lavoratori di fabbriche di abbigliamento e calzature in Ungheria, Ucraina e Serbia hanno rivelato che molti di loro sono costretti ad effettuare straordinari per raggiungere i loro obiettivi di produzione. Ma nonostante questo, difficilmente riescono a guadagnare qualcosa in più del salario minimo.
Ma non si tratta solo di un problema economico. Molti degli intervistati hanno raccontato di condizioni di lavoro pericolose come l’esposizione al calore o a sostanze chimiche tossiche, condizioni antigieniche, straordinari forzati illegali e non pagati e abusi da parte dei dirigenti. I lavoratori intervistati si sentono intimiditi e sotto costante minaccia di licenziamento o trasferimento.
«Ci pare evidente che i marchi internazionali stiano approfittando in maniera sostanziosa di un sistema foraggiato da bassi salari e importanti incentivi governativi», dichiara Deborah Lucchetti, portavoce della Campagna Abiti Puliti, sezione italiana della Clean Clothes Campaign. «In Serbia, ad esempio, oltre ad ingenti sovvenzioni, le imprese estere ricevono aiuti indiretti come esenzione fiscale fino a per dieci anni, terreni a titolo quasi gratuito, infrastrutture e servizi. E nelle zone franche sono pure esentate dal pagamento delle utenze mentre i lavoratori fanno fatica a pagare le bollette della luce e dell’acqua, in continuo vertiginoso aumento».
La Campagna Abiti Puliti chiede, dunque, ai marchi coinvolti di adeguare i salari corrisposti al livello dignitoso e di lavorare insieme ai loro fornitori per eliminare le condizioni di lavoro disumane e illegali documentate in questo rapporto.