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Con la paura e il silenzio non si spezza la “tela della violenza”

La tela del ragno è molto sottile fatta di fili microscopici che viene tessuta per intrappolare le proprie prede…fili viscosi che avvinghiano e non lasciano spazio…

E le prede?
Le donne: percosse, maltrattate, violentate, uccise da uomini (che definirei animali asociali proprio come i ragni) incapaci di vivere relazioni, incapaci di gestire conflitti o solitudini, incapaci di far fronte alla “paura dell’abbandono”.
Uomini padri-padroni, che usano la propria forza per far valere (ancora) il proprio potere millenario e oramai anacronistico. Uomini duri, tenaci che picchiano, schiavizzano, in alcuni casi uccidono e non si chiedono nemmeno il perché.
Uomini che insultano, tirano sberle, maltrattano con piccole angherie quotidiane le proprie mogli, compagne, amanti, a volte anche le figlie. Chiedendosi magari il perché ma senza riuscire, da soli, a fermarsi.

Nella stragrande maggioranza dei casi, l’assunto di molti di questi è: «Io non sono violento, la colpa è sua, è lei che mi esaspera, è lei che mi provoca e mi fa perdere le staffe! E dunque la mia violenza è soltanto punizione, vendetta».
Banali scuse che cercano di giustificare l’atto compiuto, l’aggressività esercitata, il rancore o il risentimento nascosto, l’istinto violento.
Scorciatoie linguistiche per raccontare relazioni turbolente, storie d’amore appassionate, associando così (nella narrazione) l’amore di coppia con l’omicidio, che è invece per definizione la negazione di ogni relazione.

Senza poi parlare di “raptus“, una parola che rimette il gesto assassino alla pazzia, lasciando così in ombra le cause sociali e culturali della violenza sulle donne. Perché spesso questi sono uomini educati alla violenza dai loro padri o addirittura dalle loro madri, che hanno subito violenza dal proprio padre o hanno assistito alla violenza sulla madre.

O ancora la violenza quando non funziona il “potere“: quando si sente di non avere abbastanza autorità nei confronti della società, o degli altri uomini o della propria donna. In questo caso l’atto violento diventa una forma di mortificazione, umiliazione, degradazione.

…Fili viscosi che avvinghiano e non lasciano spazio…

Sì, perchè le donne restano intrappolate nel vortice della violenza e non sempre hanno il coraggio di ribellarsi, di scappare, di superare la “disperazione”, la “paura“, il “silenzio“.  Quel silenzio opprimente che può andare avanti per anni prima che ci si lasci alle spalle queste situazioni angosciose. Il silenzio dettato dal segreto di cui vergognarsi o una verità che non si vuole accettare. 

Ma Maria ce l’ha fatta! E’ un articolo di greenMe che ho letto proprio ieri e che riporta la soddisfazione e la gioia di una donna che è riuscita ad uscire dall’incubo:«Dopo mesi di silenziosa sofferenza, in Maria scatta qualcosa, quella voce che le fa mettere definitivamente da parte la sua insicurezza e la scarsa autostima. Ho capito che era arrivato il momento di dire basta quando davanti ai miei ragazzi mi ha buttato a terra e mi ha preso a calci…Ho giurato a me stessa che non avrei più messo piede in quella casa e che l’avrei denunciato, prima che fosse troppo tardi…».

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Maria Pia Rana