Cooperazione allo Sviluppo e lotta alla povertà: concetti chiave

Negli ultimi tempi il dibattito su Povertà e Cooperazione Internazionale allo Sviluppo – ambito nel quale opera instancabile una miriade di Organizzazioni del Terzo settore italiano in tutti i paesi del mondo – si è rivitalizzato in conseguenza della proposta del Consiglio dei Ministri di incrementare di circa il 40% i fondi per l’Aiuto Pubblico allo Sviluppo, contenuta nella Legge finanziaria 2016. Dopo anni di sostanziale nulla di fatto, è attualmente allo studio una riforma complessiva del sistema della Cooperazione allo Sviluppo Italiana, al momento ancora regolata da una normativa ormai inadeguata che risale al 1987.

Senza addentraci in questa sede nei contenuti legislativi della proposta, cerchiamo di approfondire alcuni concetti “teorici” fondamentali in materia di Povertà e Cooperazione allo Sviluppo.

La locuzione “Aiuto Pubblico allo Sviluppo” o APS (in inglese Official Development Assistance, o in acronimo ODA), sottende un sistema per misurare con precisione cosa debba intendersi per “cooperazione allo sviluppo”.

A livello internazionale, il Comitato per l’aiuto allo sviluppo (Development Assistance Commitee, o DAC) dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE) ha definito nel 1969 precisi criteri contabili in materia di aiuti internazionali, al fine di consentire comparazioni statistiche.

Come è facilmente intuibile, gli elementi concettuali fondamentali risiedono nei termini utilizzati:1) Aiuto, 2) Pubblico, 3) Sviluppo.

“Aiuto” è un termine che rimanda all’idea di “assistenza”, ovvero sta a significare un trasferimento finanziario che può essere: A) a “dono”, cioè a titolo gratuito al 100% e rispetto ala quale non ci si attende alcuna restituzione del capitale; B) a “credito d’aiuto”, ossia trasferimenti finanziari a condizioni agevolate rispetto a quelle presenti sul mercato.

Generalmente, per essere considerata come componente dell’APS, una transazione finanziaria a credito deve incorporare un elemento dono di almeno 25%, al fine di escludere le generiche transazioni commerciali, fatte a scopo di profitto, e corrispondere invece a un trasferimento che costituisce un atto di liberalità del paese donatore.

L’APS, poi, è “pubblico” perché si riferisce a risorse iscritte nel bilancio dello Stato nazionale o di livelli sub-nazionali (Regioni, Province e Comuni, o loro reti e organizzazioni, nel caso dell’Italia).

Naturalmente vi possono essere anche (e sono in effetti numerose e lodevoli) iniziative finanziate autonomamente da ONG, da singoli individui, da ordini religiosi, da imprese private; tuttavia queste risorse non entrano nella contabilità dell’APS. La natura “pubblica” della transazione finanziaria si riscontra non solo nel profilo del donatore, ma anche in quello del beneficiario. In particolare si parla di cooperazione “sovrana” (o tra governi) sul canale bilaterale o multilaterale. Per “Cooperazione bilaterale” si intende quella che si realizza tra singoli paesi donatori e singoli paesi beneficiari (ad esempio Italia – Eritrea), mentre il termine “Cooperazione multilaterale” si riferisce ai programmi di aiuto allo sviluppo che si realizzano con l’intermediazione di organizzazioni internazionali, ad esempio le Agenzie e Programmi delle Nazioni Unite, che erogano aiuti soprattutto in forma di assistenza tecnica, o la Banca Mondiale e altre istituzioni finanziarie mondiali che operano soprattutto attraverso crediti d’aiuto, o ancora organizzazioni regionali (come la Commissione Europea) che utilizzano programmi a fondo perduto.

La terza componente dell’acronimo APS è la più controversa e dibattuta: cosa si intenda per “sviluppo” e come eventualmente misurarne il grado all’interno del sistema mondiale è infatti una questione aperta, non scevra da interpretazioni spesso contrastanti.

In linea generale, Paesi in via di Sviluppo (PVS), ossia i destinatari dell’aiuto pubblico allo sviluppo, sono considerati quegli Stati che presentano alcune peculiari caratteristiche economiche, quali: bassi tassi di crescita del reddito nazionale, bassi tassi di crescita del reddito pro capite, elevati livelli di povertà assoluta (alta percentuale di popolazione che vive al di sotto della cosiddetta “linea di povertà”, scarsa possibilità di accesso alla sanità di base, problemi di malnutrizione, alti tassi di mortalità infantile, bassi livelli di educazione (scarsa scolarizzazione, elevati tassi di analfabetismo e bassa produttività del lavoro).

La riduzione delle risorse a disposizione dei governi negli anni della grande crisi finanziaria tra 2007 e 2014 ha innescato un ampio dibattito internazionale su come ottimizzare l’utilizzo dei fondi pubblici, dal quale sono scaturite diverse ipotesi di soluzione. Tra queste la lotta alla povertà s’è caratterizzata come obiettivo ricorrente e strategico.

Come è noto, al Millennium Summit del Settembre 2000, i 189 Stati delle Nazioni Unite hanno sottoscritto l’impegno a eliminare la povertà dal mondo e a sostenere lo sviluppo. Gli originari “Millennium Development Goals – Obiettivi di Sviluppo del Millennio” (1. Eradicate extreme poverty and hunger, 2. Achieve universal primary education, 3. Promote gender equality and empower women, 4. Reduce child mortality, 5. Improve maternal health, 6. Combat HIV/AIDS, malaria and other diseases, 7. Ensure environmental sustainability, 8. Develop a Global Partnership for Development) sono stati superati di recente dai 17 obiettivi globali per raggiungere 3 traguardi fondamentali tra oggi e l’anno 2030, sottoscritti dai 193 leader mondiali all’assemblea delle nazioni Unite del 25 settembre 2015: 1) Porre fine alla povertà estrema, 2) Combattere la disuguaglianza e l’ingiustizia; 3) Porre rimedio al cambiamento climatico.

Ma, al di la di schemi a scopo comunicativo, parole quali “sviluppo” o “povertà” rimandano inevitabilmente a concetti più complessi, che necessitano di approfondimenti di carattere scientifico.

Cos’è e come si misura la povertà?

La povertà è un concetto difficile da definire, così come difficile è definire quando una persona debba essere considerata povera. Lo studio della povertà presenta problemi metodologici complessi, in quanto, essendo un fenomeno quasi sempre associato ad ulteriori condizioni di disagio sociale, il problema centrale è quello di definire la povertà in modo da catturare la realtà di disagio ad essa intrinsecamente legata e allo stesso tempo trovare sistemi di misurazione che ne mettano in evidenza gli aspetti quantitativi, misurabili e confrontabili.

In linea teorica questo significa avere la possibilità di verificare in maniera oggettiva le variazioni che intervengono nelle situazioni di poveri e, come corollario, stabilire se politiche di riduzione della povertà implementate siano efficaci o meno.

La povertà non è certo un problema nuovo né più acuto oggi che in passato. Nella storia dell’umanità la povertà è una condizione ricorrente e sovente dibattuta. Tuttavia, analisi volte a definire sistematicamente, misurare e comprendere il fenomeno della povertà per poter intervenire “politicamente” hanno iniziato a svilupparsi solo alla metà del XIX secolo. Numerosi approcci concettuali e metodologici sono stati proposti al fine di elaborare politiche pubbliche in grado di sconfiggere la povertà, attraverso un dibattito vasto, che riflette la complessità del fenomeno.

La maggior parte dei tentativi per identificare nella popolazione complessiva le fasce povere da quelle che povere non sono tendono a focalizzarsi su considerazioni economiche, vale a dire sul reddito o sul consumo.

Tale approccio consente una rapida e facile identificazione dei poveri e, sulla base di questa, rende possibile anche confronti tra i gruppi e comparazioni intertemporali. Tuttavia, un primo motivo di discussione all’interno di questa “scuola” è legato all’idea se la povertà sia da considerarsi assoluta o relativa, vale a dire se qualcuno è povero perché il suo livello di benessere è inferiore rispetto a quello della maggioranza della popolazione o se invece esiste una soglia minima di benessere al di sotto della quale c’è la povertà.

 

Povertà assoluta VS Povertà relativa

Gli studi dei pensatori liberali in Inghilterra verso la fine del XIX secolo definivano che una famiglia può dirsi in condizioni di povertà quando i ricavi totali sono insufficienti per ottenere il minimo richiesto per la sussistenza dei sui membri. Per definire il livello di sussistenza gli studiosi inglesi dell’epoca facevano riferimento alla quantità minima indispensabile per sopravvivere di cibo, abbigliamento, alloggio, riscaldamento, combustibile e utensili per cucinare e lavare, tutti acquistati ai prezzi più bassi sul mercato. Tale metodologia implica l’esistenza di una soglia determinata da una quantità di reddito minimo, al di sotto del quale le persone sono da considerarsi povere. In altre parole questo reddito minimo sarebbe la linea che divide la popolazione tra i poveri e non poveri.

Il reddito minimo necessario per la sopravvivenza è dunque considerato anche da studiosi dei giorni nostri come una misura della sussistenza, e quindi della “povertà assoluta”.

In contrapposizione a questo approccio, ben presto si è sviluppata un’altra corrente di pensiero che interpreta la povertà in termini relativi. Essa si basa sull’idea che i bisogni non sono definiti fisiologicamente ma determinati culturalmente.

Questa scuola afferma che un’analisi rigorosa della società non consente di avallare l’idea che esistano bisogni assoluti, poiché i bisogni si adattano costantemente ai cambiamenti che si verificano nella società e che, conseguentemente, sono sempre legati ad un particolare momento e luogo.

L’approccio della soglia di povertà assoluta è utilizzato soprattutto nei paesi e nelle aree meno sviluppate del mondo dove la povertà estrema colpisce ampi segmenti di popolazione.

Al contrario, nei paesi che hanno raggiunto livelli più alti di sviluppo l’attenzione è rivolta sempre più al concetto di povertà relativa. In quest’ultimo gruppo di paesi, che hanno standard di vita superiori al livello minimo di sussistenza fisica, le preoccupazioni si concentrano su temi come la distribuzione del reddito e sulla possibilità di raggiungere livelli di qualità di vita socialmente accettabile per ciascuno dei cittadini.

Approcci alternativi moderni

Nell’ambito della discussione teorica sulla povertà assoluta e relativa, Amartya Sen ha fornito contributi interessanti, che in qualche modo conciliano i due approcci. In “Povertà e carestie” (1981) osserva che “vi è un nucleo irriducibile di privazione assoluta nell’idea di povertà, che si manifesta con la fame, la malnutrizione e le difficoltà visibili, a prescindere da un situazione relativa”. Di conseguenza, per Sen l’idea di povertà relativa non va a soppiantare l’approccio “assolutista” alla povertà, bensì è ad esso complementare.

Successivamente Sen non ha mancato di rilevare che il dibattito teorico ha mancato di realismo per la presunzione di poter trovare modalità di determinazione degli standard di vita assoluti. Per Sen la povertà è un fenomeno innanzitutto assoluto, che però si esprime in termini relativi in riferimento alle risorse esistenti.

Due elementi sono fondamentali per la sua concezione:

  • In primo luogo, l’assoluta necessità di qualcosa non implica che questa necessità rimanga fissa nel tempo. La soglia di povertà è determinata da alcune variabili e non vi è alcuna ragione per pensare che queste variabili non possano cambiare nel tempo.
  • In secondo luogo, vi è una differenza tra avere relativamente meno di altri e avere meno in assoluto per affrontare più necessità di altri. Il fatto che una persona abbia un livello di benessere più basso di un’altra è una prova di ineguaglianza, ma di per sé non è una prova di povertà, se non si hanno ulteriori informazioni sul fatto che quella persona abbia soddisfatto o meno le sue esigenze.

Per Sen quindi, il concetto di povertà assoluta rappresenta un nucleo innegabile, in quanto se una società ha un certo numero di cittadini che non soddisfano le proprie esigenze alimentari, in quella società c’è fame e dunque povertà, indipendentemente dal grado di disuguaglianza. Tuttavia, se la povertà è un concetto assoluto nell’area dei bisogni, come per esempio il bisogno di cibo, le forme specifiche per risolvere la necessità possono variare a seconda del tempo e del luogo in cui ci si trova. Le modalità di reperimento di quanto necessario sotto il profilo dei bisogni alimentari in India è diverso rispetto all’Italia, dal punto di vista dei mezzi di soddisfacimento del bisogno, così come delle risorse necessarie.

Sulla scia del pensiero di Sen, coloro che pensano che il reddito sia un parametro insufficiente o incompleto per identificare la povertà hanno dato vita a teorizzazioni alternative, che talvolta hanno assunto una certa complementarità con l’approccio della povertà in base al reddito o di consumo.

Un approccio alternativo a quello delle soglia di povertà – assoluta o relativa – è quella dei “bisogni di base”, che nasce come critica all’approccio della povertà basata sul reddito o sul consumo. Le soglie di povertà suppongono che la soddisfazione dei bisogni dipenda solo dal reddito, mentre in realtà questa è solo una delle variabili che determinano la soddisfazione. L’altra sarebbe il diritto di accesso a beni e servizi pubblici, del tempo disponibile per l’istruzione, per il tempo libero, per attività ludico-ricreative e per la casa, e attività non di sopravvivenza. Una persona può avere tutti i bisogni insoddisfatti e quindi essere considerata povera sebbene il suo reddito sia al di sopra della linea povertà.

Secondo questo approccio la povertà è da intendersi come caratteristica delle persone che non possono soddisfare uno o più bisogni di base e non possono quindi partecipare pienamente nella società. La povertà sarebbe pertanto un fenomeno multiforme che non può essere misurato da un singolo indicatore.

L’approccio dei bisogni di base ha portato quindi al metodo di misurazione povertà dei “bisogni insoddisfatti di base”. Questo metodo definisce come povera tutta la popolazione che ha uno o più bisogni insoddisfatti e differenzia la povertà in diverse categorie di povertà, per tipo di necessità insoddisfatto.

Questo approccio è stato anche associato alle “mappe della povertà” in America Latina, che utilizzano indicatori complessi quali il sovraffollamento, i materiali utilizzati per la costruzione di alloggi, la disponibilità idrica o di servizi sanitari, la cura dei figli, l’accesso alla scuola primaria, l’attività economica del capofamiglia, la diffusione degli elettrodomestici, etc…

Approfondendo la critica agli approcci alla misurazione della povertà basati sul reddito, Amartya Sen ha anche ispirato la corrente di studi conosciuta come “Capacità e Realizzazioni”.

Per Sen, il reddito è solo un mezzo per raggiungere un fine, pertanto è sbagliato assumere la prospettiva della povertà basata sul reddito.

Per la stessa ragione Sen critica anche l’approccio dei bisogni fondamentali, perché esso riduce la povertà alla disponibilità o meno di beni e servizi necessari a soddisfare ciò che si identifica come un bisogno fondamentale, e dunque anche in questo caso beni e servizi rappresentano i mezzi, non il fine.

Centrale nello studio di Sen del fenomeno della povertà è l’idea che i poveri hanno una capacità insufficiente di trasformare questi mezzi in fini. In sostanza la povertà è per Sen “mancanza di capacità”. La povertà secondo questo approccio è essenzialmente l’assenza di alcune competenze di base per lavorare o raggiungere alcune forme di realizzazione. Povera è dunque una persona che non ha la possibilità di raggiungere livelli accettabili di realizzazione.Le teorie di Sen hanno ispirato lo “Human Poverty Index”, che concentra tre parametri: longevità, istruzione e standard di vita, elaborato da UNDP come complemento del Human Development Index (HDI) negli anni 90 e successivamente sostituito dal Multidimensional Poverty Index nel 2010.

 

Published by
Giuseppe Paglione