Molto spesso definiamo impropriamente “etnici” alcuni tessuti e oggetti che anticamente, o più recentemente, erano parte integrante della cultura dei tanti popoli indigeni sparsi per il mondo. Li acquistiamo per pochi euro ma sussiste in tutti noi la consapevolezza che stiamo parlando di prodotti industriali, che di autentico non hanno più niente se non il vago ricordo.
In Guatemala, invece, un’organizzazione composta oltre 1000 donne Maya ha deciso di proteggere le proprie ricchezze, in particolare i bellissimi tessuti chiamati “huipiles” che già l’industria del sottocosto sta provando a vendere nei mercati, minacciando in questo modo la principale fonte di reddito delle donne native del luogo. Per portare avanti questa battaglia, già nella primavera nel 2016, l’Afedes (Associazione delle donne per lo sviluppo di Sacatepéquez) e cioè un movimento popolare nato in difesa della disparità di genere in Guatemala, si era appellata alla Corte costituzionale per ricordare che la Carta stessa garantiva di “riconoscere, rispettare e promuovere le forme di vita, i costumi e le tradizioni indigene”.
Di seguito, nell’autunno dello stesso 2016, la stessa Afedes aveva proposto una riforma legislativa che andava ancora più a fondo: riconoscere come proprietà intellettuale collettiva il lavoro delle popolazioni indigene, che, espletandolo, si ponevano come autori del proprio patrimonio culturale. Un progetto di legge che, sostanzialmente, serviva a proteggere le tessitrici Maya dal plagio. Ebbene, tale progetto è stato ufficialmente accettato ed è ora in attesa di essere esaminato dal Congresso.
Si tratta di una presa di posizione che alla lunga si è rivelata vincente, soprattutto per il livello di consapevolezza delle donne che attribuiscono ai loro tessuti una precisa identità culturale e spirituale, non a caso i motivi dei tessuti rappresentano spesso i famosi calendari Maya, la loro voglia di indipendenza, figure che ritraggano origini e passato di un mondo antichissimo. Un modo di riflettere e riversare la propria cultura, difendendo anche l’economia, semplice, e che tuttavia per molti altri popoli indigeni non è stato possibile. Ha detto Angelina Aspuac, organizzatrice di Afedes, in occasione proprio di un’udienza della Corte costituzionale: «Anche se dal punto di vista occidentale l’atto di produrre i propri vestiti è sinonimo di arretratezza o povertà, per noi costituisce la strada per la libera autodeterminazione delle nostre comunità; siamo figlie delle nonne che non moriranno, perché vivono nell’universo dei nostri tessuti».
La popolazione Maya non ha avuto una storia facile. Solo per riferirci al periodo più recente, è stata decimata da una cruenta guerra civile che tra il 1960 e il 1996 ha sterminato o fatto perdere le tracce di circa 200.000 persone. Date le circostanze, è encomiabile lo sforzo collettivo di una comunità che non si è mai arresa di fronte alla distruzione e ha avuto la lungimiranza, costante nel tempo, di proteggere il proprio patrimonio culturale, decisa, com’è giusto, a continuare ad esistere.