Legalità

Da Miseria Ladra a im(PATTO SOCIALE)

Una risoluzione presentata ai Parlamentari per porre fine alle politiche di austerità e chiedere di escludere la spesa sociale dal Patto di Stabilità in vista della discussione del Def, Documento di Economia e Finanza”. Dopo aver dato vita al progetto Miseria Ladra (leggi l’approfondimento), Libera, Gruppo Abele, Sbilanciamoci!, Arci, Rete della Conoscenza, Forum Nazionale del Terzo Settore e altre decine di associazioni si ritrovano oggi  in un comune impegno per la seconda fase della campagna im(PATTO SOCIALE).

“Se in nome della lotta al terrorismo Juncker ha dato la possibilità ai governi di derogare al patto di stabilità non inserendo nel conteggio del deficit le spese per la sicurezza, crediamo sia ancor più urgente e utile derogare al patto di stabilità per le spese relative ai servizi sociali, fondamentali per il contrasto alle diseguaglianze ed all’esclusione sociale di cui il terrorismo si nutre per diffondere i suoi messaggi di odio. Le politiche sociali rappresentano infatti un investimento sulla coesione sociale e sulla sicurezza ancor più necessario in questa fase dinanzi all’esplosione delle diseguaglianze ed alle contraddizioni e tensioni che questo comporta. Il terrorismo lo si sconfigge soprattutto combattendo le diseguaglianze ed investendo in diritti sociali, istruzione e cultura, le vere armi in grado di isolare socialmente e politicamente l’ideologia del terrore e della guerra”.

La ferma convinzione dei promotori dell’iniziativa è che ormai siamo al punto di rottura. Il Paese non è più in condizione di reggere l’urto di ulteriori politiche di austerità basate sul taglio dei costi e sulla ricerca estenuante degli equilibri di bilancio. Non possiamo continuare ad ignorare che il problema fondamentale è “di consumi insufficienti, mancanza di investimenti e crescenti diseguaglianze di reddito e ricchezza”.

Tutte le ricerche segnalano livelli inaccettabili di povertà e diseguaglianze: 4,5 milioni di cittadini in povertà assoluta, triplicati negli ultimi sette anni di crisi, e 9 milioni in povertà relativa, più che raddoppiati rispetto al 2008; i minori in povertà assoluta sono più di un milione, mentre l’11,6% della popolazione è in condizione di grave deprivazione materiale; la stima delle persone a rischio povertà o esclusione sociale in Italia è del 28,3%.

Questi dati, tra i tanti indicati nella risoluzione, suggeriscono di cambiare strada, di evitare la rottura della coesione sociale e territoriale del Paese, nella consapevolezza che i tagli all’istruzione, alle politiche sociali, alla sanità acuiscono le diseguaglianze, accrescono la marginalità sociale di ampi strati della popolazione e, inevitabilmente, diventano terreno di coltura per la criminalità, per il “risentimento sociale”, per il razzismo e, in ultima istanza, per le mafie.

Non è un caso, quindi, che i movimenti impegnati nella battaglia per la legalità oggi più che mai sono in prima linea anche nella lotta contro la povertà e le diseguaglianze – la prima sempre più estesa e le seconde sempre più marcate. Anche questa volta l’impegno civile approda in Parlamento e pone in discussione alcune scelte di politica economica. Speriamo ci siano parlamentari disponibili ad ascoltare.  

 

Proposta di lavoro per un Testo di risoluzione

Premesso che:

  • Il Trattato di Maastricht limita il disavanzo pubblico degli Stati europei al 3% del PIL e il debito pubblico al 60%.
  • Con la Risoluzione del Consiglio europeo del 17 giugno 1997 gli stati membri adottano il Patto di stabilità e di crescita (PSC) impegnandosi a rispettare l’obiettivo a medio termine di un saldo di bilancio vicino al pareggio o attivo.
  • Gli art. 5.1 e 6.3 del regolamento CE 1466/97 e l’art.3 del Fiscal Compact consentono una deviazione temporanea dall’obiettivo del raggiungimento del pareggio di bilancio in circostanze “eccezionali” ovvero quando “concorrono eventi inconsueti non soggetti al controllo della parte contraente interessata che abbiano rilevanti ripercussioni sulla situazione finanziaria della pubblica amministrazione”.
  • Il 2 marzo 2012 22 Stati europei, tra i quali l’Italia, hanno sottoscritto il Trattato sulla stabilità, sul coordinamento e sulla governance nell’unione economica e monetaria al fine di rafforzare la disciplina di bilancio e il coordinamento delle loro politiche economiche.
  • La Legge costituzionale n.1 del 2012 ha introdotto il principio del pareggio di bilancio nella Costituzione italiana.

Osservato che:

  • Nel biennio 2013-2015, successivo al picco della crisi economica del 2008, il prodotto interno italiano è cresciuto su base annua dello 0,8% rispetto al 3,6% europeo, mentre gli investimenti sono diminuiti nello stesso periodo dell’1,3%, in controtendenza rispetto alla media europea (4,4%) (Fonte: Eurostat.) Importazioni ed esportazioni sono aumentate, rispettivamente, dell’1,6 e del 3,2% – circa 2 punti percentuali in meno rispetto all’Unione Europea, dove l’import è aumentato del 3,5% e l’export del 4,3%.
  • Il numero di occupati è invece passato da 22,19 milioni del 2013 a 22,46 milioni del 2015. In particolare, l’occupazione maschile è aumentata dell’1,31% e quella femminile dell’1,11% nel biennio 2013-2015. Un andamento peggiore e una disparità di genere emergono se si guarda al Mezzogiorno. L’incremento totale dell’occupazione nelle regioni meridionali è, in media, dello 0,8%, con l’occupazione femminile che vede un incremento solo dello 0,4%. Il tasso di disoccupazione rimane, a livello nazionale, pressoché stazionario passando dal 12,14% del 2013 all’11,89% del 2015. Guardando al 2015, si continuano a osservare importanti divergenze fra macro-ripartizioni in particolare fra tasso di disoccupazione femminile nel Nord-Italia (9,05%) e nel Mezzogiorno (21,3%).
  • Per quanto riguarda la disoccupazione giovanile, la fascia d’età 15-29 anni si caratterizza per un tasso di disoccupazione che, nel periodo 2013-2015, è addirittura aumentato dal 29,8% al 29,9%. La categoria più fragile, tuttavia, è quella delle giovani donne meridionali il cui tasso di disoccupazione è passato, nello stesso periodo, dal 45,9% al 46,3%.
  • A settembre 2014 il presidente della BCE Draghi segnalava che il tasso allo 0,05% segnava il limite tecnico al di sotto del quale non era possibile scendere. A marzo 2016 ha contraddetto le sue stesse parole, portando il tasso allo zero, oltre ad aumentare il Quantitative Easing da 60 a 80 miliardi al mese, mentre l’intera Europa è sull’orlo della deflazione. Non solo si è andati oltre i “limiti tecnici” di intervento, ma le politiche attuali sono inefficaci, perché continuano a ignorare come il problema fondamentale non sia monetario o di offerta, ma di consumi insufficienti, mancanza di investimenti e crescenti diseguaglianze di reddito e ricchezza.
  • Il 18 novembre il presidente della CE Juncker si è dichiarato favorevole all’esclusione delle spese per la sicurezza e l’acquisto di armi dal patto di Stabilità e crescita definendole spese straordinarie, dunque passibili di esclusione ai fini della valutazione del percorso di consolidamento del deficit pubblico.
  • L’Italia alla vigilia della crisi aveva un deficit pari all’1,5%, superiore ma non di molto rispetto a quello degli altri Paesi europei. La lunga recessione, la crisi del 2008-2009 e quella successiva dei debiti sovrani hanno comportato, tra il 2007 e il 2015, un aumento di quasi 30 punti dell’incidenza del debito pubblico italiano sul PIL: pari al 103,5% nel 2007, essa ha raggiunto il 132,8% nel 2015. Ciò è avvenuto nonostante le politiche di spending review abbiano costituito una delle priorità assunte dai Governi italiani succedutosi dal novembre 2011 in poi.
  • Le politiche di spending review, tradotte perlopiù in tagli lineari alla spesa pubblica, hanno causato, secondo il Presidente della Corte dei Conti (Relazione per l’inaugurazione dell’anno giudiziario 2016) «una non ottimale costruzione di basi conoscitive sui contenuti, sui meccanismi regolatori e sui vincoli che caratterizzano le diverse categorie di spesa oggetto dei propositi di taglio». «Dai tagli operati è, dunque, derivato un progressivo offuscamento delle caratteristiche dei servizi che il cittadino può e deve aspettarsi dall’intervento pubblico cui è chiamato a contribuire». La conseguenza che ne è derivata è l’aumento delle disparità e delle diseguaglianze tra i diversi sistemi sociali e sanitari territoriali.
  • Secondo l’ISTAT il valore aggiunto generato dall’economia sommersa era pari nel 2013 a circa 190 miliardi di euro, l’11,9% del PIL, in aumento rispetto agli anni precedenti (11,7% nel 2012, 11,4% nel 2011). Il valore aggiunto connesso alle attività illegali raggiungeva invece circa 16 miliardi di euro, pari all’1% del PIL. Nel complesso, l’economia non osservata (sommersa e derivante da attività illegali) ammontava, nel 2013, a 206 miliardi di euro, pari al 12,9% del PIL. Sebbene non vi siano stime ufficiali disponibili sull’elusione e l’evasione fiscale generate da queste attività, gli studi disponibili concordano nel concludere che esse rappresentano una quota significativa del PIL. Si tratta di miliardi che con l’adozione di opportune misure di giustizia fiscale potrebbero essere recuperati e investiti per migliorare i servizi educativi, scolastici, sanitari e sociali.
  • Nel 2013 il valore aggiunto generato dall’economia non osservata deriva per il 47,9% dalla componente relativa all’attività sotto-dichiarata dagli operatori economici. La restante parte è attribuibile per il 34,7% al valore aggiunto prodotto dal lavoro irregolare, per il 9,4% alle altre componenti (fitti in nero, mance e integrazione domanda-offerta) e per l’8% alle attività illegali.
  • L’Italia nell’aprile 2012 ha inserito il pareggio di bilancio in Costituzione (art.81) e a dicembre è stata di conseguenza approvata la legge n.243/2012 di attuazione del principio del pareggio di bilancio. Le conseguenze di queste scelte sui Comuni e sui cittadini sono evidenziate dal “Rapporto IFEL sulla finanza locale 2014”. a) la spesa pubblica italiana, al netto della previdenza e degli interessi sul debito, è pari al 33,8% del Pil ed è di 4,8 punti in meno della media europea; b) sulla spesa complessiva della Pubblica Amministrazione, pari a 801 miliardi/anno, i Comuni incidono solo per il 7,8%; c) sul debito complessivo dello Stato pari a 2.280 miliardi, i Comuni concorrono solo per il 2,7%. Nonostante queste percentuali, negli ultimi sette anni (2008-2014) agli enti locali sono stati sottratti 19 miliardi grazie al patto di stabilità e 12 miliardi di mancati trasferimenti erariali, mentre il personale ha subito una contrazione dell’1% (quasi 60.000 lavoratori in meno), facendo salire alle stelle il contributo complessivo dei Comuni alla stabilità finanziaria (+909%).
  • Le politiche per i servizi sociali, per l’istruzione e per la sanità sono state le più colpite dalle politiche di austerità. I Fondi Sociali Nazionali hanno conosciuto un rilevante ridimensionamento negli anni della crisi. Il Fondo Nazionale per le Politiche Sociali dagli 1,4 miliardi del 2008 è passato ai 312,9 del 2015 e a 312,6 nel 2016. La quota del Fondo destinata alle Regioni e agli enti locali è scesa dai 656,4 milioni del 2008 ai 278,1 del 2015. Il Fondo Nazionale Infanzia e Adolescenza dai 43,9 milioni del 2008 è sceso ai 28,7 del 2015. Il Fondo per la Non Autosufficienza, dopo essere stato azzerato nel 2011, ha raggiunto i 400 milioni solo nel 2015 e nel 2016 con uno stanziamento ancora gravemente insufficiente rispetto alla domanda esistente. Il Fondo per la Famiglia dai 346,4 milioni del 2008 è sceso ai 23,3 milioni del 2015 e a 22,6 per il 2016.
  • Nel 2012 (ultimi dati ISTAT disponibili) i Comuni italiani, singoli o associati, hanno speso per interventi e servizi sociali sui territori poco meno di 7 miliardi di euro (6.982.391.861 euro). Per il secondo anno consecutivo registra in calo rispetto all’anno precedente (erano 7.027.039.614 euro nel 2011 e 7.126.891.416 euro nel 2010).
  • Ai 6.982.391.861 euro della spesa sociale comunale, finanziata per il 67,2% dai Comuni stessi con risorse proprie, si aggiungono la compartecipazione degli utenti al costo delle prestazioni (pari a 993.490.531 euro) e la compartecipazione del Servizio Sanitario Nazionale per le prestazioni sociosanitarie erogate dai Comuni o dagli enti associativi (pari a 1.171.498.752 euro).
  • Tra il 2010 e il 2012 a crescere è stata solo la compartecipazione degli utenti al costo delle prestazioni. La spesa comunale media per abitante, diminuita nel 2011 per la prima volta dall’inizio della rilevazione, è tornata a crescere nel 2012 assestandosi sul valore di 117,3 euro, di poco inferiore a quello calcolato nel 2010 (117,8). Notevoli permangono le differenze territoriali: dai 277,1 euro per abitante della Valle d’Aosta ai 24,6 euro della Calabria (nel 2011 la spesa procapite più alta era stata registrata nella Provincia Autonoma di Trento pari a 282,5 euro, mentre la più bassa era stata sempre appannaggio della Calabria con 25,6 euro).
  • Nel Mezzogiorno, dove il welfare locale è finanziato in misura maggiore dai trasferimenti statali, i tagli derivanti dalle scelte di finanza pubblica rischiano di tradursi più direttamente in un contenimento delle risorse impiegate in questo settore, accentuando ulteriormente i già rilevanti differenziali territoriali.
  • I servizi socio-educativi per la prima infanzia svolgono un ruolo chiave nelle attività di educazione, socializzazione e cura dei bambini. Il sostegno delle reti familiari tende a diminuire laddove la partecipazione delle donne al mercato del lavoro tende a crescere, rendendo più difficile l’organizzazione della vita quotidiana delle famiglie.
  • Nel 2012 la spesa sostenuta dai Comuni per gli asili nido è stata di circa 1 miliardo e 265 milioni di euro cui si aggiungono 240 milioni garantiti dalle quote di compartecipazione degli utenti, per un totale di 1 miliardo 567 milioni di euro. La spesa corrente, al netto delle quote di compartecipazione da parte degli utenti, ha visto una crescita importante rispetto all’anno scolastico 2003/2004 (+49%), cui è corrisposto un aumento del numero di bambini che hanno avuto accesso ai servizi (+32%).
  • Ciononostante, ancora nel 2012 solo 13 bambini su 100 (poco più di 193mila in totale) usufruivano dei servizi socio-educativi garantiti dal 52,7% dei Comuni italiani (ISTAT, L’offerta comunale di asili nido e altri servizi socio-educativi per la prima infanzia. Anno scolastico 2012/2013). Al Sud erano poco più di 3 su 100.
  • Gli ultimi anni sono stati caratterizzati dal disinvestimento nei confronti del Servizio Sanitario Nazionale. Le evidenze sono l’Intesa Stato-Regioni febbraio 2015 e il DEF 2015 che hanno sancito il taglio di 2,5 miliardi di euro al Fondo Sanitario nel 2015 e 2016 e portano il rapporto spesa sanitaria-Pil al 6,6% nel 2020 (6,8% nel 2015). Il Decreto Enti locali di agosto 2015 ha tagliato ulteriormente la spesa sanitaria di 2,35 miliardi per l’anno 2015. La Legge di Stabilità 2016 ha previsto un ulteriore taglio di 2 miliardi di euro per il 2016, rispetto a quanto previsto nel Decreto Enti Locali. Dunque, nonostante il Patto per la Salute nel luglio 2014 avesse stimato un finanziamento per il SSN di 109,928 miliardi per il 2014, di 112,062 per il 2015 e di 115,444 per il 2016 – che la Legge di Stabilità 2015 confermava – la Legge di Stabilità 2016, finanzia il Fondo Sanitario Nazionale con soli 111 milioni di euro per il 2016. A questi dovrebbero sommarsi ulteriori 1,8 miliardi, importo per il quale le Regioni sono chiamate a contribuire per l’equilibrio di finanza pubblica ma che potrebbe ancora una volta coincidere con il taglio alla sanità.

Considerato che:

  • Secondo l’ultimo rapporto Istat 2014 in Italia registriamo livelli inaccettabili di povertà e diseguaglianze: sono 4,5 milioni i cittadini in povertà assoluta, triplicati negli ultimi sette anni di crisi, e 9 milioni quelli in povertà relativa, più che raddoppiati rispetto al 2008; i minori in povertà assoluta sono più di un milione, mentre l’11,6% della popolazione è in condizione di grave deprivazione materiale;
  • Sempre secondo l’ultimo rapporto Istat la stima delle persone a rischio povertà o esclusione sociale in Italia è del 28,3%; dal rapporto emerge come la povertà oggi non colpisce solo le figure “tradizionali” più deboli ma anche altre fasce e soggetti sociali: lavoratori poveri (4 milioni), giovani come mai nella storia, le donne che sono le più discriminate, le famiglie monoparentali, i migranti già residenti, i pensionati, le partite iva ed una fascia enorme dei ceti medi;
  • Secondo l’ultimo rapporto Svimez 2014 1/3 della popolazione del Sud Italia è già a rischio povertà, mentre gli investimenti si sono ridotti del 59%, il divario di Pil procapite tra centro-nord e sud nel 2013 è aumentato al 56,6%, tornando ai livelli del 2003; nel periodo tra il 2007-2013 al Sud le famiglie in povertà assoluta sono cresciute oltre due volte e mezzo, da 443 mila a 1 milione e 14 mila (il 12,5% del totale);
  • Secondo i dati Eurostat in Europa sono 123 milioni i cittadini a rischio povertà, 50 milioni sono già in povertà assoluta, 26 milioni i minori nell’indigenza;
  • Tra il 2008 ed il 2013 il numero di cittadini soggetti in Europa a grave deprivazione materiale è aumentato di 7,5 milioni;
  • Secondo gli studi di Credit Suisse diffusi nel suo “Global Wealth Databook” si stima che l’1% più ricco della popolazione europea detenga oltre un terzo della ricchezza del continente;
  • Secondo il rapporto Oxfam del 2015 sulle diseguaglianze in Europa in Italia il numero dei miliardari si è triplicato dal 2008 al 2014: sono 342 i miliardari italiani;
  • I dati sull’aumento delle diseguaglianze e sull’aumento delle grandi ricchezze private dimostrano come il problema della povertà in Europa non consista nella scarsità di risorse in tempi di crisi, ma nel modo in cui la ricchezza è distribuita, nei tagli al welfare e nella perdita della centralità delle politiche sociali e fiscali come strumento di contrasto alle diseguaglianze;
  • Alla fine del 2015, la pressione fiscale è stata del 43,3 per cento (di tre punti superiore al livello di inizio secolo e quattro punti oltre quello medio UE). L’Italia si colloca al secondo posto in Europa nel prelievo gravante sui redditi da lavoro (con il 42,8 per cento, quasi otto punti oltre la media europea) e al terzo posto in quello sui redditi d’impresa (circa il 26 per cento, ossia ben oltre il 50 per cento della media UE), mentre si colloca al ventiduesimo posto per il prelievo sui consumi pari al 17,7%;
  • Nel quadriennio 2008-2012 complessivamente, sebbene in modo molto differenziato tra i diversi Stati membri, l’Europa ha disinvestito nel welfare, come richiesto dalle politiche di austerità e dal Fiscal compact, con un taglio sulla spesa sociale europea per un ammontare totale di circa 230 miliardi di euro;
  • Disinvestire nel welfare ha, tra gli altri, anche l’esito di distribuire i rischi di impoverimento in modo selettivo e diseguale, gravando soprattutto sui più deboli, e questo è uno dei meccanismi che porta a condizioni di povertà stabili, prolungate e difficilmente reversibili;
  • I tagli alle politiche sociali e l’assenza di una misura universale di sostegno al reddito nel nostro Paese contribuiscono a rafforzare il potere delle mafie e della criminalità organizzata, aumentandone la capacità di penetrazione economica, culturale, sociale e politica;
  • Secondo un rapporto UNICEF nel 2014 più del 30% dei bambini di Romania, Italia, Spagna, Lituania e Lettonia vive al disotto della soglia di povertà relativa; oltre il 40% per i bambini greci;
  • Il rapporto preparato per la CE dall’European Social Policy Network, dal titolo “Social Investment in Europe” del 2015, ha denunciato “l’assenza in Italia di una strategia complessiva nei confronti dell’indigenza e dell’esclusione sociale” evidenziando come “la riduzione delle risorse finanziarie a disposizione dei servizi pubblici e delle amministrazioni locali causi una decrescita degli investimenti nel welfare” e la mancanza di un Reddito Minimo Garantito, già presente in tutti gli altri paesi UE con l’eccezione appunto dell’Italia e della sola Bulgaria, dimostrino “l’assenza di una strategia complessiva nei confronti dell’indigenza e dell’esclusione sociale”;
  • Sempre il rapporto “Social Investment in Europe” denuncia come nonostante la povertà sia raddoppiata siano state “tagliate del 58% le risorse destinate al Fondo Nazionale per le politiche sociali rispetto al 2008”;
  • Nelle previsioni Eurostat del 3 ottobre 2005, si indicava l’Italia come “uno dei Paesi dell’UE con il più elevato tasso di rischio di povertà. Senza interventi sociali e di sostegno al reddito il rischio di povertà e disagio sociale ed economico potrebbe avere effetti devastanti”, che in Europa esistono ormai da decenni strumenti di sostegno al reddito destinati alle persone e che in diverse misure intervengono a seconda delle diverse necessità dell’individuo;
  • Secondo la Risoluzione del Parlamento Europeo del 16 ottobre 2010 sul Ruolo del reddito minimo nella lotta contro la povertà e nella promozione di una scelta inclusiva in Europa, questo è lo strumento che può “contribuire al miglioramento della qualità della vita e che offra a tutti la possibilità di partecipare alla vita sociale, culturale e politica come pure vivere dignitosamente”;
  • L’Italia è l’unico paese dell’UE insieme alla Bulgaria a non aver introdotto una misura di sostegno al reddito così come previsto dalle numerose risoluzioni europee;
  • L’assenza di risposte istituzionali adeguate, così come previste dalla Costituzione italiana e dalla Carta di Nizza, determina la percezione e il senso comune rispetto al contrasto alla povertà ed alle diseguaglianze, con il rischio che queste vengano “istituzionalizzate” e trattate alla stregua dei “crimini”, contribuendo così a fornire motivazioni e terreno fertile per la criminalità, i predicatori dell’odio, del razzismo, delle guerre e del terrorismo, frammentando ulteriormente le nostre comunità e la coesione sociale, mettendo definitivamente a rischio la stessa democrazia ed il progetto di una Europa unita.

In Italia il tasso di abbandono scolastico si attesta attorno al 17%: gli unici Paesi che fanno peggio di noi in Europa sono Romania, Portogallo, Malta e Spagna. È come se negli ultimi 15 anni l’intera popolazione scolastica di Piemonte, Lombardia e Veneto (2,87 mln di studenti) avesse abbandonato gli studi prima di finire la propria formazione scolastica.

  • Per quanto riguarda l’università, secondo i dati dell’Anagrafe Studenti del Miur la differenza tra immatricolati all’A.A. 2003/2004 e immatricolati all’A.A. 2014/2015 è di 66.800 unità. Facendo la somma anno per anno dal 2003/04 al 2014/15, otteniamo 463mila potenziali studenti universitari che non si sono nemmeno immatricolati, una cifra pari a quattro volte e mezzo quella degli iscritti dell’Università La Sapienza.
  • Per quanto riguarda la formazione continua, in Italia solo il 6,2% della popolazione è coinvolta in percorsi formativi (contro una media UE del 10,2%, con picchi del 31,2% in Danimarca) e il tasso di partecipazione culturale è in picchiata, dal 37,1% del 2011 al 26,7% del 2014.
  • Dal punto di vista degli investimenti, l’ultimo rapporto Eurostat segnala che l’Italia è all’ultimo posto in Europa per investimenti pubblici nell’istruzione (7,9% della spesa pubblica contro una media europea del 10,2%) e al penultimo posto per quelli in cultura (1,4% contro 2,1%) (link). Dove manca un vero accesso alla formazione e alla cultura c’è un aumento delle disuguaglianze, della marginalità sociale, della criminalità – spesso controllata dalle mafie – e un crollo della competitività del sistema produttivo.

Il Parlamento impegna il Governo a:

  • Escludere dal Patto di stabilità la spesa sociale;
  • Aumentare le risorse per i fondi sociali nazionali e per il sistema territoriale dei servizi sociali riportandole almeno al livello del 2008;
  • Dismettere la politica dei tagli lineari agli enti locali;
  • Dismettere la politica dei tagli lineari effettuati sulla spesa sanitaria portando la sua incidenza ad almeno il 7,2% del PIL (media europea registrata nel 2013) dal 6,8% registrato nel 2015;
  • Aumentare la spesa per l’istruzione e per la cultura portandole almeno al livello della media europea (rispettivamente 10,2% e 2,1% del totale della spesa pubblica) e rimodulare il sistema del diritto allo studio tanto a livello scolastico quanto a livello universitario, prevedendo la sua estensione universale.
  • Introdurre una misura strutturale di sostegno al reddito di entità almeno pari al 60% del reddito mediano pro-capite così come indicato dall’art. 34 della Carta di Nizza;
  • Impegnarsi a livello europeo affinché siano abbandonate le politiche di austerità a vantaggio degli interventi a sostegno dei consumi e della domanda interna, della crescita, dell’occupazione e dell’inclusione sociale.
Published by
Valerio Roberto Cavallucci