Tardo pomeriggio nella piccola biblioteca della mia città. Su un cubo di legno, in esposizione, una selezione di testi. Antonio Manzini, Orfani bianchi, Chiarelettere 2016. In prima pagina l’autografo dell’autore, in ricordo di una visita estiva. Quarta di copertina: “Volevo misurarmi con un personaggio femminile. Una donna unica con vita difficile che, per trovare un angolo di serenità, è pronta a sacrifici immensi (…)”.
Come? Il narratore delle gesta del vicequestore Rocco Schiavone, “poliziotto fuori dagli schemi, poco attento al potere e alle forme”, alle prese con una storia di donne? E che donna? “Mirta è una giovane donna moldava trapiantata a Roma in cerca di lavoro. Alle spalle si è lasciata un mondo di miseria e sofferenza, e soprattutto Ilie, il suo bambino, tutto quello che ha di bello e le dà sostegno in questa vita di nuovi sacrifici e umiliazioni”.
Da Rocco Schiavone a una badante. Il passo è davvero ardito e la mia curiosità ormai conquistata. La lettura scorre rapida e convincente. Ma, me ne scuso con Manzini, oggi non mi interessa scrivere dell’opera letteraria. Invece, vorrei dedicare qualche riflessione proprio alle badanti e, per questo, trarrò spunto dalla sua narrazione.
Chi tra noi non ha avuto relazioni dirette o indirette con una badante? Il femminile è d’obbligo, il lavoro di cura degli anziani è appannaggio quasi esclusivo di donne immigrate. Si tratta di un’esperienza condivisa da una larga fetta di nostri concittadini. D’altra parte la popolazione invecchia, le malattie delle terza e quarta età sono inevitabili, le famiglie sempre più “ristrette”, si lavora sempre più a lungo, le strutture per anziani poche, costose, spesso “tristi”. Allora ricorriamo alle badanti. Una soluzione più economica. Dapprima solo nelle grandi città. Ora anche nei più remoti paesi delle aree interne.
Eppure non credo esista una categoria di lavoratori tanto estesa quanto “misteriosa” come questa. Non mi riferisco alle condizioni di lavoro più o meno regolari. Ospitiamo queste persone nelle nostre case e affidiamo alle loro cure i nostri cari ma non sappiamo nulla di loro, delle esperienze, della vita familiare, del Paese dal quale provengono. Ci accontentiamo, frettolosamente, del passaparola, della presentazione di qualche altra “collega”, di improbabili referenze, dell’accreditamento di agenzie più o meno sconosciute.
Qui entra in gioco il racconto di Manzini. Ne consiglio vivamente la lettura a chi sia interessato a comprendere qualcosa in più dell’universo delle badanti. Con rispetto, partecipazione, curiosità.
La protagonista si chiama Mirta, ma per tutti è Marta. Lei, disperatamente, prova a correggere l’imprecisione e a difendere la sua identità. Viene dalla Moldavia, ma giacché nessuno sa nulla di questo Paese, per tutti è romena. Arriva dal villaggio di Logofteni. Chi mai imparerà il nome di questa località? E poi, perché dovrebbe? Allora Mirta si rassegna a indicare la capitale, Chişinău. Peggio che andar di notte. Gli abitanti della città eterna (e non solo loro) non ne hanno mai sentito parlare.
Mirta vive nel rimpianto per quello che ha lasciato nel Paese d’origine, ma anche nella piena consapevolezza che lì non ci sono né ci saranno opportunità di riscatto. Mirta tocca con mano, quotidianamente, l’incommensurabile valore del denaro nel Paese che la ospita rispetto alla sua Moldavia e, a volte, prova sconcerto per il consumismo occidentale, pur essendone irrimediabilmente attratta. Mirta non è più “a casa” in nessun luogo. Né in Moldavia né in Italia. Il rapporto con la famiglia d’origine è compromesso. Ha deciso di lasciare un figlio nel suo Paese per assicurargli un presente e un domani migliori, ma sa di aver prodotto una lacerazione che non si ricomporrà mai più. Vive nella solitudine, aggrappandosi disperatamente a pochi contatti mediati dalla posta elettronica. La temporanea perdita dello smartphone provoca una tragedia, l’esperienza dell’abbandono assoluto. Abita in case e in famiglie che non capisce, si misura con stili di vita che le sono estranei e non le piacciono. Si affeziona a persone che di lì a poco non ci saranno più.
Manzini racconta una storia, quella di Mirta. È la sua storia, non è lecito generalizzare. Ma così squarcia il velo che nasconde le vicende di decine di migliaia di persone che incontriamo quotidianamente e di cui preferiamo sapere il meno possibile. Ma dopo questa lettura sarà più difficile far finta di nulla.