Da oltre 50 anni è al fianco degli ultimi e schierato in prima linea contro tutte le mafie che attanagliano e devastano il nostro territorio nazionale. Lui è don Luigi Ciotti, fondatore nel 1965 del Gruppo Abele e nel 1995 dell’Associazione Libera contro i soprusi delle mafie in tutta Italia, che Felicità Pubblica ha incontrato a Pescara nel corso del convegno “Noi la mafia e gli stili di vita nascosti”. L’evento ha rappresentato l’occasione per rivolgere a don Ciotti 3 domande semplici ma dirette.
Ci sono molti fattori che concorrono al concetto di felicità pubblica, qual è secondo lei quello che non può mancare?
Io credo che occuparci del benessere degli altri vuol dire occuparsi del proprio benessere. Tutti dobbiamo darci da fare per non dimenticarci che speranza vuol dire inclusione. Felicità vuol dire darsi da fare perché nessuno resti un passo più indietro. E’ l’articolo 3 della nostra Costituzione.
La mafia fa paura, ed è evidente, ma ci sono anche degli atteggiamenti nascosti che allo stesso tempo possono essere considerati mafiosi, quali sono a suo avviso?
Il vero grande problema del nostro Paese è la mafiosità. L’omertà, il silenzio, i compromessi che sono davanti agli occhi di tutti. C’è troppa gente che si volta dall’altra parte. Sui massimi sistemi, sui principi sono tutti d’accordo. Poi però nei comportamenti, negli stili di vita trovi una marea di gente che sta dall’altra parte. In sostanza, ci sono troppi cittadini a intermittenza a seconda dei momenti, delle circostanze, delle emozioni. Noi invece abbiamo bisogno di essere cittadini responsabili. Il cambiamento ha bisogno di ciascuno di noi. Nessuno escluso. Noi dobbiamo percepire che siamo e dobbiamo essere parte di questo cambiamento. Lo chiediamo allo Stato, alle Istituzioni, alla politica, ma dobbiamo chiederlo anche a ciascuno di noi. Ora credo che la prima grande riforma da fare in Italia è un “auto-riforma”, oggi, che è la riforma delle nostre coscienze, il risveglio delle nostre coscienze. Dobbiamo metterci in gioco, perché non basta indignarci, la denuncia fine a se stessa, che è necessaria quando deve essere fatta, ma bisogna veramente che ci rimbocchiamo un po’ tutti di più le maniche, che non siamo spettatori, diventare più protagonisti, più responsabili.
A breve tornerà in aula la legge organica sui beni confiscati alle mafie, che cosa si aspetta da questo appuntamento?
E’ due anni e mezzo che aspettiamo le riforme che abbiamo chiesto, non dimenticando che quella legge ha visto 20 anni fa Libera protagonista, quando abbiamo raccolto milioni di firme, per la confisca e l’uso sociale dei beni. In questi anni si sono viste le positività e le criticità. In base alle criticità bisogna migliorarla e renderla una legge più forte, più efficace, più veloce, meno burocratica. Sono stati fatti dei gruppi di lavoro già durante il Governo Letta che aveva indicato delle linee, poi sono passati all’attuale governo. Ora vanno in discussione proprio in questi giorni nelle varie commissioni in Parlamento. Speriamo che questo pacchetto che arriva proprio dalla concretezza, dall’aver toccato con mano i pregi e i limiti, possa essere attuato, perché si farebbe un forte balzo in avanti positivamente. Speriamo che la politica, le forze politiche tutte insieme, su un tema così non faccia sconti, non perda tempo, non faccia troppe eccezioni, perché abbiamo bisogno di rendere molto più forte e più incisivo il meccanismo legislativo. Perché i mafiosi temono che tu gli sottrai la loro forza e i loro patrimoni. E noi dobbiamo fare questo, che da beni esclusivi nelle loro mani devono diventare beni condivisi, quando è possibile. Poi lotta alla mafia vuol dire lavoro, lavoro, lavoro. Una società muore senza lavoro. E lotta alla mafia vuol dire scuola, vuol dire istruzione, vuol dire cultura. Questo al fianco della stima e della riconoscenza per il lavoro della magistratura e delle forze di polizia. Cultura, lavoro, scuola, sottrazione dei beni.
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