Oggi affrontiamo sotto un’altra prospettiva i problemi legati al genere soffermandoci sul divario esistente all’interno degli istituti di credito italiani tra le possibilità che ha una donna di far carriera rispetto al collega maschio.
La ricerca di First Cisl, concentratasi sui primi cinque istituti nazionali (Intesa Sanpaolo, Unicredit, Monte dei Paschi, Banco Bpm, Ubi), evidenzia come in banca il numero delle donne sia in aumento, il 47% del totale. Peccato che a questa crescita di quote rosa non si accompagni, a parità di posizione, né uno stipendio equivalente rispetto a quanto percepito dal collega né la medesima opportunità di entrare nei quadri dirigenziali.
Basti pensare che, nelle maggiori banche italiane, il grado di dirigente è raggiunto da meno dello 0,5% delle donne, a fronte del 2% maschile, mentre per quanto concerne la situazione intermedia del quadro direttivo si arresta al 30% il numero di donne che raggiunge tale posizione, laddove il personale maschile è al 50%.
«È presumibile», afferma Sara Barberotti, segretaria nazionale di First Cisl e responsabile delle politiche di genere, «che a fine 2017 la quota femminile risulti ulteriormente accresciuta per effetto dei 18mila esuberi definiti o annunciati. Il tasso di occupazione femminile è comunque largamente minoritario rispetto a quello europeo, come dimostrano i dati dei gruppi a più spiccata propensione internazionale Unicredit e Intesa Sanpaolo». Per quanto riguarda Unicredit, le donne assunte in Italia sono 21.700, il 44% del personale, mentre negli altri Paesi europei il medesimo istituto di credito arriva al 65%, con picchi del 77% in Bulgaria e Polonia. Intesa Sanpaolo invece già a fine 2016 aveva registrato il sorpasso delle donne, che sono il 51% dei dipendenti: ma nelle controllate estere l’occupazione femminile tocca anche il 62%. Della serie “bene ma non benissimo” per le donne del Belpaese.
Sul fronte del divario di stipendio, a produrre un gap reddituale fra uomini e donne contribuisce certamente l’esigenza femminile di fruire di un lavoro part-time: mediamente 28 donne su 100 chiedono la riduzione dell’orario lavorativo mentre il personale maschile che sceglie tale soluzione è poco più dell’1%. Tutto ciò ha inevitabili ripercussioni sia sulla possibilità delle donne di fare carriera e sia sul loro reddito.
Giustissima l’analisi di Giulio Romani, segretario di First Cisl, il quale afferma: «Negli istituti di credito italiani le donne stanno per raggiungere la parità occupazionale ma a mancare è invece un contesto culturale, sociale e legislativo che ne consenta lo sviluppo professionale, oggi limitato dal fatto che la cura della famiglia e delle fasce più deboli grava quasi tutta su di loro».
Messo a fuoco il problema, si attendono soluzioni.