Fino a qualche anno fa moltissimi stupratori in Giordania riuscivano a farla franca ed evitare quindi condanne grazie all’esistenza, nella Costituzione, dell’articolo 308 che permetteva di evitare il processo se sposavano la vittima. Finora, abbiamo detto. La buona notizia è che presto non potranno più ricorrere a questo escamotage perché è stata presentata una nuova legge che, dopo l’approvazione in Camera, sarà controfirmata dal Re Abdullah.
L’esito appare, per fortuna, scontato. A meno di virate clamorose, l’articolo 308 non potrà più essere utilizzato come alibi per commettere violenze sulle donne e, comprensibilmente, le organizzazioni per i diritti umani parlano già di una vittoria importante. Effettivamente, l’abrogazione è stata votata all’unanimità e accolto con gioia dai deputati dopo l’annuncio del presidente della Camera Atef Tarawneh. Inoltre, il primo ministro Hani Mulki ha voluto rivolgere il suo apprezzamento nei confronti del Parlamento giordano dicendo: «Ringraziamo tutti, quell’articolo era contro i nostri valori».
In altri Paesi arabi – alcuni dei quali laici – come ad esempio Libano, Algeria, Iraq, Kuwait, Libia, Siria, persistono ancora delle leggi che permettono agli stupratori di evitare condanne, mentre in Tunisia, Marocco ed Egitto le stesse norme sono già state soppresse.
Tuttavia, per la Giordania si tratta di un mezzo passo avanti se teniamo conto che continuano a resistere i “delitti d’onore”. In questo senso noi italiani li conosciamo molto bene e da vicino perché nel nostro Paese sono stati aboliti solo nel 1981 dopo tre passaggi storici: il referendum sul divorzio del 1974, la riforma del diritto di famiglia del 1975 e dopo il referendum sull’aborto.
In Giordania, lo scorso anno, sono stati registrati ben 36 casi di omicidi che avevano per vittime donne e, in 8 di questi, il “motivo” era “l’onore” di mariti, padri e fratelli che si sono sentiti offesi e hanno deciso di uccidere il malcapitato.
Nel frattempo, in una Turchia devastata da instabilità politica, detenzioni prive di senso a danni di giornalisti (leggi articolo), caos sociale, le donne da Ankara hanno fatto sentire la propria voce attraverso uno slogan che ha suscitato molto clamore: «Come mi vesto non ti riguarda, giustizia per le donne».
La rivolta è cominciata dopo diversi episodi di violenza nei confronti di giovani ragazze di Istanbul che a parere della frangia più conservatrice della città vestiva in maniera troppo discinta finché non si è raggiunto il culmine dell’esasperazione attraverso un episodio gravissimo: una ragazza universitaria, Asena Melisa Saglem, è stata presa a schiaffi e poi insultata su un mezzo pubblico per via di un abbigliamento «inadeguato al mese del Ramadan». Dopo il danno è arrivata la beffa e il figuro è stato rilasciato con la seguente motivazione: «vittima di una provocazione».
Dopo questo spiacevole episodio, se ne sono verificati altri più o meno dello stesso tenore. Superfluo biasimare i fatti in sé che si commentano da soli ma forse è lecito interrogarsi su quanto la Turchia stia vivendo una fase di regresso sotto vari punti di vista, compreso quello che fa riferimento alla libertà individuale. Altrettanto doveroso però ci appare appoggiare e sostenere il coraggio di migliaia di donne che, ormai esauste dopo tanti soprusi, scendono in piazza e protestano, manifestano, rivendicano il diritto di esistere, essere, decidere, vivere.