Lo scorso 13 luglio è morto Liu Xiaobo, all’ età di 61 anni. Probabilmente in pochi ricorderanno il suo nome, che invece segna un momento importante nella storia della Cina e del mondo.
Xiaobo infatti era un famoso dissidente cinese, vincitore del premio Nobel per la Pace nel 2010. Faceva parte della prima generazione che tornò a studiare sui banchi dell’università dopo la rivoluzione culturale indetta da Mao Tse Tung (Mao Zedong). In un primo momento non dichiarò apertamente le proprie convinzioni politiche e anzi si recò come insegnante a New York: era ormai un celebre letterato e un intellettuale.
Ma arrivarono, nell’aprile del 1989, i disordini e le proteste di Piazza Tienanmen ed egli decise di tornare in Cina per partecipare alle manifestazioni, come raccontò in prima persona al quotidiano inglese “The Guardian”.
L’attività dello scrittore fu in prima linea: promosse uno sciopero della fame e tentò in ogni modo di mediare per fare sì che la piazza venisse evacuata in modo pacifico. Ogni tentativo fu inutile e tutti sappiamo come purtroppo finì: la repressione da parte dell’esercito avvenne nella notte tra il 3 e 4 giugno 1989 e fu durissima. Persero la vita centinaia di persone, soprattutto giovani, ma il numero esatto non lo sapremo mai.
Solo per aver partecipato alla protesta, Xiaobo trascorse un anno e mezzo in prigione, anche se non ci fu alcun regolare processo.
Trascorse anche, tra il 1996 e il 1999, anni di reclusione in un campo di lavoro. Nonostante fosse nel mirino delle autorità cinesi, non desistette mai dallo sfidare il regime, aggirando la censura attraverso Hong Kong per diffondere i propri scritti. In particolare fu la pubblicazione della “Carta 08”– ispirata alla “Carta 77” dei dissidenti cecoslovacchi – a creare seri problemi al governo cinese: infatti nel documento si chiedevano esplicitamente il rispetto della libertà di espressione e la possibilità di libere elezioni in Cina.
Due furono le conseguenze di questa pubblicazione: la prima è che fu processato e condannato a undici anni di carcere, la seconda è che l’anno dopo, nel 2010, fu insignito del premio Nobel per la Pace per “la sua lunga lotta non violenta in favore dei diritti umani”. Al momento del conferimento del premio la sua sedia rimase vuota, come simbolo di diritto negato, fatto che provocò l’ira del governo cinese che sospese i rapporti diplomatici con la Norvegia.
Anche la sua morte è passata praticamente in silenzio in Cina e solamente l’agenzia Chine Nouvelle ha comunicato brevemente la notizia, in lingua inglese. Dal momento che era gravemente malato di un cancro al fegato, numerosi Paesi avevano chiesto al governo di Pechino di farlo espatriare per poterlo curare, un diritto che la Cina gli ha negato.
Ci ha lasciato però un grande testamento spirituale, un invito a pensare ai diritti umani come fondamenti di una società civile: combattere per le proprie idee è quanto di meglio si possa fare per avere una vita dignitosa.