Questa volta tocca a un uomo il compito di chiudere il breve ciclo di approfondimenti dedicato alla violenza di genere.
Prendo le mosse dall’incipit dell’articolo di Maria Pia Rana che, riferendosi agli uomini violenti, affonda le unghie nella condizione maschile dei nostri giorni: “uomini incapaci di vivere relazioni, incapaci di gestire conflitti e solitudini, incapaci di far fronte alla paura dell’abbandono”.
L’aggettivo “incapace” risuona, sinistro, per ben tre volte, come il canto del gallo per l’apostolo Pietro, anche lui incapace di essere fedele. L’uomo è incapace di vivere relazioni, di gestire conflitti, di affrontare la solitudine e l’abbandono. Una condanna senza appello.
È proprio così? Certamente per gli uomini violenti. Ma dobbiamo chiederci se questa condizione, anche quando non si manifestano atteggiamenti violenti, sia comune a larga parte del mondo maschile. Forse sì. L’uomo contemporaneo fugge la solitudine come il peggiore dei mali. Il silenzio e l’attesa sono soltanto “vuoto”. Anche una solitudine temporanea, qualunque ne sia l’origine, è percepita come un insuccesso. Se poi è legata a un abbandono, allora è quasi un’onta che va immediatamente “lavata” con nuove conquiste, in grado di dimostrare forza e capacità di attrazione.
Ma anche le “relazioni” sono vissute con estrema difficoltà. Stabilire una relazione autentica obbliga a riconoscere l’altro come titolare di diritti e desideri, al tuo pari. Entrare in relazione significa essere capaci di gestire conflitti. Non c’è relazione senza conflitti, non c’è relazione amorosa senza “scontro”. L’amore non ha nulla a che fare con quel sentimentalismo mieloso di cui si chiacchiera sui rotocalchi. L’amore – la relazione più profonda e sconvolgente – è confronto, dialettica, lotta, affermazione di identità forti, nell’assoluto rispetto reciproco. Così, se volessimo portare alle estreme conseguenze le nostre riflessioni, potremmo affermare che quest’uomo non è in grado di amare.
Le donne dimostrano quotidianamente di saper costruire un autonomo progetto di vita. Anche nelle condizioni più difficili le donne sono in grado di mettere insieme i cocci, di trovare la rotta, di scegliere un percorso, una prospettiva. Gli uomini non più. Di fronte alla perdita di ruolo non sanno reinventarsi, si sentono persi, non accettano la propria fragilità, si chiudono a riccio, si negano al futuro. A volte diventano violenti e, allora, uccidono e si uccidono.
D’altra parte, se è vero che la velocità è la cifra della società liquida, è altrettanto vero che nulla è più difficile che cambiare mentalità (Veronica de Meo). Il “maschio” è costretto a fare i conti con un cambio di paradigma. Il desiderio femminile di autonomia ha spazzato via le gerarchie legate al genere, lasciando l’uomo nel timore di vivere una “virilità mutilata” (Milly D’Aquila). Titolari di un “potere anacronistico” molti maschi sembrano non avere più progetti da realizzare, obiettivi da raggiungere. Alcuni usano violenza nel disperato tentativo di affermare se stessi.
Per paradosso ancor più del femminicidio il vero problema è la violenza sulle donne (Milena Pennese), un fenomeno che si estende a tutte le condizioni sociali e per il quale non ci sono alibi. Non possono esserci alibi. Anzi, è necessario che uomini e donne la smettano di trovare motivazioni/giustificazioni per le azioni violente. Ma anche una condanna “senza se e senza ma” ha senso solo se sappiamo trovare qualche via d’uscita da una situazione intollerabile.
In più passaggi troviamo riferimenti all’educazione al rispetto. Naturalmente parlando di “rispetto” va abbandonato ogni riferimento al formalismo e al “politicamente corretto”. L’etimologia della parola indica altro. Riporta al termine latino respectus che, a sua volta, trae origine dal verbo respicio. Guardare indietro, volgersi a guardare, rivolgere l’attenzione. Ciascuno di noi si volge a guardare colui per il quale prova interesse, la persona che merita attenzione. Respicio significa anche aver riguardo, prendere cura, tenere in considerazione. Chi picchierebbe, violenterebbe, ucciderebbe la persona per la quale prova interesse, che merita attenzione, di cui vuol prendersi cura? Rispettare vuol dire “tenere in conto”. C’è una definizione di un vecchio vocabolario della lingua italiana che sembra scritta per questa occasione: “considerare come stimabile in sé, da non doversi violare, offendere, profanare, ledere”.
Ma abbiamo bisogno di essere educati al rispetto, dalla più tenera età. Educare, cioè trarre fuori, condurre, allevare. Ancora, dallo stesso vocabolario: “affinare, ingentilire l’animo e la mente, svolgere e guidare le facoltà degli adolescenti secondo fini di civiltà”.
Ebbene, noi uomini, in questa difficilissima fase di cambiamento, abbiamo bisogno di costruire ex novo il nostro rapporto con le donne. Dobbiamo fermare e punire i violenti ma, soprattutto, dobbiamo riacquisire la capacità di vivere relazioni, di gestire conflitti, di affrontare la solitudine e l’abbandono. Non è uno sforzo individuale ma una grande opera collettiva. E per raggiungere questo ambizioso obiettivo, in primo luogo, dobbiamo spendere ogni energia per educarci al rispetto. Dobbiamo affinare l’animo e la mente per dedicare attenzione e prenderci cura delle persone che incontriamo. Solo così la violenza, anche quella di genere, non troverà più spazio. Solo così l’amore potrà essere passione, confronto, anche conflitto, senza mai produrre violenza.
Ci aspetta un cammino lungo e pieno di ostacoli. I primi segnali non sono dei migliori. Non ci aiuteranno buoni sentimenti o atteggiamenti politicamente corretti, ma uno sforzo autentico e sofferto per cambiare in profondità. Ma per far questo, come ha ricordato Antonella Luccitti nel suo contributo di apertura, abbiamo bisogno di continuare a parlare di violenza sulle donne, sempre, senza stancarci mai.