Cos’hanno in comune Massimo Gramellini e Marco Bellocchio? Il primo giornalista, scrittore, editorialista del Corriere della Sera e de “La Stampa”, ha uno stile incentrato molto sull’empatia, sul coinvolgimento emotivo del lettore (o del telespettatore quando si cimenta nella lettura dei suoi editoriali in tv), sulla semplicità dei concetti ma soprattutto sul saper “prendere alla pancia” il pubblico. Al contrario Bellocchio è un regista molto complesso, uno dei più politici e anticonformisti del cinema italiano, che ha saputo portare le sue idee laiche sul grande schermo attraverso film non sempre alla portata di tutti.
E allora, dicevamo, che cosa può accumunare questi due professionisti? Me lo sono chiesta quando ho saputo che il regista insignito del Leone d’oro alla carriera al Festival del Cinema di Venezia – e già vincitore del Leone d’argento, dell’Orso d’argento a Berlino e di diversi David di Donatello e Globo d’oro – aveva scelto di trasformare in un film proprio un libro di Gramellini, Fai bei sogni. E la curiosità, accresciuta dalle 10 nomination all’ultima edizione dei David di Donatello, mi ha spinto a vedere la pellicola.
La storia del libro, e quindi del film, è autobiografica e racconta l’infanzia del giornalista, caratterizzata dalla scomparsa della madre quando lui aveva appena 9 anni. Un infarto gli ha strappato via l’affetto della madre quando lui era ancora troppo piccolo, quando l’affetto della mamma era ancora fondamentale, quando aveva ancora troppe cose da insegnargli e troppe cose lui aveva ancora da conoscere sul conto di lei. Tra le tante cose anche il motivo di quella prematura scomparsa, sulla quale il protagonista inizia ad indagare e che scopre quando forse è ormai troppo tardi.
Tardi per perdonare chi gli ha mentito, tardi per comprendere le ragioni di quella morte, ma non troppo tardi per ricostruire nella propria mente ogni tassello della sua infanzia e arrivare da solo a comprendere – anche se mai del tutto – quel drammatico episodio che ha segnato per sempre la sua vita di figlio unico.
Dopo aver esordito con un film in cui il protagonista uccide la madre (I pugni in tasca, 1965), dopo oltre 50 anni Bellocchio torna ad affrontare il difficile rapporto tra mamma e figlio, questa volta però soffermandosi sulla ricerca costante di quella figura che, seppur venuta meno troppo presto, affolla ogni giorno i pensieri del protagonista (un ottimo Valerio Mastandrea) mescolandosi tra la passione per il giornalismo, l’amore per la compagna e, appunto, i ricordi di infanzia. Un’infanzia, dicevamo, caratterizzata dall’assenza di un punto di riferimento – il più importante per un bambino – e anche dalla paura, che il piccolo Massimo riesce quasi ad esorcizzare grazie a una guida immaginaria rappresentata dall’eroe Belfagor.
Meno coinvolgenti i passaggi del film in cui si racconta la vita di ogni giorno del giornalista Massimo, la sua gavetta, la sua crescita professionale. Ma ritengo che sia proprio questo contrasto a dare maggiore forza e più calore ai ricordi di bambino del protagonista, in cui la madre balla con lui, canta o ritaglia le sagome degli attori famosi per incollarle su un diario. Il tutto sotto gli occhi innamorati di un bambino, suo figlio, che non sa ancora che quell’idillio sta per spezzarsi per sempre.
Regia: Marco Bellocchio
Anno: 2016
Durata: 134 minuti