Prendiamo in prestito lo spazio solitamente dedicato ai partenariati pubbico-privati per la seconda parte del nostro approfondimento sul femminicidio e sulla violenza di genere.
Ieri attraverso la relazione che accompagna il provvedimento sull’istituzione della Commissione d’inchiesta sono stati presi in esame l’evoluzione del concetto di femminicidio e la progressiva affermazione della sua rilevanza giuridica (leggi l’approfondimento). Oggi, dopo aver completato la valutazione delle iniziative assunte in materia dalle principali istituzioni internazionali ed europee, ci soffermeremo sulla valutazione della condizione italiana.
Qual è nel nostro Paese il “quadro normativo e di prevenzione e contrasto alla violenza sulle donne”? Il giudizio espresso da Rashida Manjoo, la relatrice speciale dell’ONU sulla violenza contro le donne, è molto severo. “Secondo Manjoo, in Italia la maggior parte delle violenze non sono denunciate perché perpetrate in un contesto culturale maschilista dove la violenza domestica non è sempre percepita come un crimine, dove le vittime sono economicamente dipendenti dai responsabili della violenza e persiste la percezione che le risposte fornite dallo Stato non sono adeguate per riconoscere il fenomeno, perseguire per via legale gli autori di tali crimini e garantire assistenza e protezione alle vittime. Nel rapporto dell’ONU si rileva poi che in Italia gli stereotipi di genere sono profondamente radicati e predeterminano i ruoli di uomini e donne nella società – analizzando i dati concernenti la presenza nei media, il 46 per cento delle donne appare associato a temi quali il sesso, la moda e la bellezza e solo il 2 per cento a questioni di impegno sociale e professionale. Iniziative italiane come il Piano di azione nazionale contro la violenza non hanno portato miglioramenti significativi e, inoltre, la mancanza di dati ufficiali disaggregati per genere, raccolti da istituzioni nazionali, impedisce di misurare accuratamente la portata del fenomeno”.
Su quest’ultimo aspetto la Relazione sottolinea come gli ultimi approfondimenti risalgano al Rapporto Ombra, elaborato dalla piattaforma «Lavori in corsa: 30 anni CEDAW – Committee on the Elimination of Discrimination against Women» e presentato il 17 gennaio 2012 alla Camera dei deputati; mentre gli unici dati disponibili sul numero dei femminicidi li dobbiamo alla preziosa attività delle volontarie della «Casa delle donne per non subire violenza» di Bologna che, dal 2005, li raccoglie a partire dalle notizie fornite dalla stampa.
Per mettere a punto un quadro aggiornato e attendibile del fenomeno, quindi, si è resa necessaria l’istituzione della Commissione d’inchiesta il cui compito, non a caso, sarà “quello di accertare il livello di attenzione e la capacità d’intervento delle autorità e delle pubbliche amministrazioni, centrali e periferiche, competenti a svolgere attività di prevenzione e di assistenza, nonché di proporre soluzioni di carattere legislativo e amministrativo al fine di realizzare la più adeguata prevenzione e il più efficace contrasto del femminicidio e, più in generale, di ogni forma di violenza di genere, nonché di tutelare la vittima della violenza e gli eventuali minori coinvolti”.
Istituzione di una Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio, nonché su ogni forma di violenza di genere – seconda parte
Dunque, affinché uno Stato sia esente da responsabilità internazionale, deve aver adottato ogni mezzo idoneo ad evitare che i singoli possano porre in essere lesioni dei diritti garantiti attraverso l’adesione agli strumenti internazionali e regionali del sistema di tutela dei diritti umani. Gli indicatori di una eventuale responsabilità statale sono molteplici e, semplificando, lo Stato deve aver assolto all’obbligazione di assicurare la protezione dei diritti delle donne sia de jure che de facto. In sostanza, lo Stato deve ratificare gli strumenti internazionali a tutela dei diritti delle donne, sancire a livello costituzionale il principio dell’uguaglianza di genere, dotarsi di un corpus normativo di contrasto alla violenza sulle donne, predisporre politiche e piani di azione in materia, formare gli operatori giudiziari e le forze dell’ordine in un’ottica di genere, disporre di strutture di protezione adeguate, predisporre strumenti di rilevazione statistica dei dati e di sensibilizzazione culturale. E nonostante l’adozione di un quadro normativo e politico di prevenzione e contrasto alla violenza sulle donne adeguato, onere dello Stato è far sì che esso sia funzionale ed efficace nel contrasto alla violenza di genere, ovvero sia in grado di prevenire i fattori di rischio, agendo a livello strutturale.
In questo senso, la sentenza «Campo Algodonero» rileva sia per come ripercorre minuziosamente tutte le omissioni dello Stato messicano che ne sanciscono la responsabilità per i femminicidi di Ciudad Juárez, sia per come motiva tale responsabilità alla luce dei parametri sanciti dagli altri organismi a tutela dei diritti umani e delle osservazioni pervenute, in special modo dalla CEDAW e dai vari relatori speciali deIl’ONU, allo Stato messicano. La stessa sentenza è poi preziosa nella misura in cui richiama i precedenti in cui, anche se non si parlava espressamente di femminicidio, la questione verteva in materia di responsabilità dello Stato per non aver adottato tutte le misure adeguate a prevenire l’uccisione della donna. E la Corte interamericana non lo fa soltanto richiamando la propria giurisprudenza, ma anche con riferimento a quella della Corte europea per i diritti umani, citando la motivazione dei casi decisi davanti al Comitato CEDAW, quasi a voler riaffermare l’universalità dei parametri per una giustizia minima sui diritti delle donne, l’universalità della risposta giuridica del sistema di tutela internazionale e regionale di tutela dei diritti umani al femminicidio. La Corte interamericana ha in particolare richiamato la decisione del Comitato CEDAW nei confronti dell’Ungheria (2005, in cui lo Stato fu dichiarato responsabile in quanto non disponeva di una legislazione specifica in materia di violenza domestica e molestie sessuali, né di strumenti analoghi agli ordini di protezione o di allontanamento del coniuge violento dalla casa familiare, né di case rifugio per la protezione immediata delle donne sopravvissute alla violenza) e quella, ancora più recente, del Comitato CEDAW nei confronti dell’Austria (2007, in cui lo Stato fu dichiarato responsabile dell’uccisione di una donna da parte di suo marito, poiché lo stesso, nonostante la pericolosità e la riportata condanna, non era stato trattenuto in carcere).
Nella sentenza di «Campo Algodonero» si sviluppa poi il concetto secondo cui, se lo Stato non adotta tutti i mezzi adeguati per prevenire e contrastare la violenza di genere, discrimina le donne in quanto non garantisce loro il diritto ad essere uguali davanti alla legge e dunque ugualmente protette dalle istituzioni. In tal senso, la Corte interamericana richiama il precedente della Corte europea per i diritti umani, Opuz vs. Turchia, ove i giudici di Strasburgo, a loro volta richiamando una precedente giurisprudenza della medesima Corte interamericana, hanno condannato lo Stato turco per violazione degli articoli 3 e 14 della CEDU: si tratta, rispettivamente, del divieto di tortura e trattamenti umani degradanti, in quanto la signora Opuz ha subìto uno stato perenne di minacce, violenze e paura da parte del marito, a causa della passività della polizia e dei giudici nella persecuzione dello stesso, e del divieto di discriminazione, in quanto le riforme legislative adottate dalla Turchia per eliminare le disposizioni discriminatorie in materia di violenza domestica non sono bastate a eliminare la passività delle autorità locali davanti alla sua richiesta di aiuto «in quanto donna».
Si segnala, peraltro, che il Parlamento europeo già nel 2006 disponeva audizioni conoscitive sui femminicidi in Messico e Guatemala, e l’11 ottobre 2007 adottava una risoluzione sui femminicidi in Messico e America Centrale e sul ruolo dell’Unione europea nel contrasto di questo fenomeno. Ancora, nel 2008, il Consiglio d’Europa menzionava il femmicidio nelle linee guida sulla violenza nei confronti delle donne e, nell’aprile 2009, la Presidenza europea si congratulava per la sentenza di «Campo Algodonero».
Nell’ambito del sistema delle Nazioni Unite, la relatrice speciale dell’ONU sulla violenza contro le donne, Rashida Manjoo, nel giugno 2012 ha presentato al Consiglio dei diritti umani il rapporto annuale, dedicato per la prima volta agli omicidi basati sul genere (femmicidi). La redazione del rapporto è stata preceduta da una consultazione preparatoria di esperte governative e non governative provenienti da tutto il mondo, ed è possibile verificare che l’unica esperta presente per l’area europea è stata proprio un’italiana. Gli omicidi di donne basati sul genere, secondo la relatrice, «seguono una logica istituzionale, quella di definire e sostenere relazioni sociali gerarchiche basate su ineguaglianze di razza, genere, sessualità, e classe». La relatrice speciale ha evidenziato che quando uno Stato fallisce nel perseguire questi reati, l’impunità non solo intensifica la subordinazione e l’impotenza di colei a cui queste violenze sono indirizzate, ma manda anche un messaggio alla società, che la violenza nei confronti delle donne è accettabile e inevitabile. La conseguenza di un approccio inadeguato delle istituzioni al femminicidio è la normalizzazione dei comportamenti violenti nei confronti delle donne. Per questa motivo, la Manjoo nel suo Rapporto ha consegnato agli Stati una serie di raccomandazioni per un adeguato approccio al femminicidio, da sviluppare a livello internazionale, regionale e nazionale.
Il rapporto è stato accolto con favore dagli Stati, tanto che anche a livello europeo ha avuto inizio una fruttuosa collaborazione con la società civile, che si è espressa ad esempio attraverso la Dichiarazione di Vienna, presentata al Consiglio economico e sociale delle Nazioni Unite, durante la ventiduesima sessione della Commissione sulla prevenzione del crimine e la giustizia penale, quale esito di un simposio di alto livello che, ancora una volta, ha visto la partecipazione di esperte italiane, ed a cui è seguita, sempre nell’ambito della medesima sessione, l’adozione della risoluzione «Intraprendere azioni per il contrasto di omicidi basati sul genere di donne e bambine», appoggiata, tra gli altri, anche dallo Stato italiano.
Nonostante ciò, l’Italia è tra i molti Paesi che prestano scarsa considerazione per verificare la propria capacità di esercitare in maniera adeguata la dovuta diligenza nella prevenzione e nel contrasto alla violenza maschile sulle donne seguendo gli standard internazionali. Infatti, nonostante la relatrice speciale dell’ONU sulla violenza contro le donne abbia inviato al nostro Governo un questionario a cui rispondere proprio su questo tema, funzionale alla preparazione del suo rapporto annuale del 2013, presentato il 3 giugno al Consiglio dei diritti umani dell’ONU, l’Italia risulta essere tra quegli Stati che non hanno fornito riscontri al questionario inviato. Di conseguenza, evidente risulta la discrasia, attualmente esistente e necessariamente da superare, tra elaborazione e approfondimento degli ostacoli materiali portato avanti dalla società civile e mancanza di impatto di questa elaborazione sulla attività legislativa parlamentare.
Ora, nel caso del nostro Paese, oltre a questo ultimo rilievo, numerose e gravi sono le mancanze imputabili allo Stato italiano nell’adempiere alle obbligazioni internazionali in materia di discriminazione e violenza nei confronti delle donne, in particolare quelle sancite dalla ratifica della CEDAW, riportate dettagliatamente nel Rapporto Ombra, elaborato dalla Piattaforma «Lavori in corsa: 30 anni CEDAW» e presentato il 17 gennaio 2012 alla Camera dei deputati, insieme alle raccomandazioni del Comitato CEDAW. E` emblematico che, proprio sulla base delle informazioni fornite al Comitato, nelle raccomandazioni del Comitato CEDAW al Governo italiano si ammetta chiaramente che, stando alle evidenze raccolte, potrebbe sussistere una responsabilità dello Stato per i femminicidi in aumento. Il Comitato infatti si dichiara «preoccupato per l’elevato numero di donne uccise da partner ed ex partner (femmicidi), che può indicare un fallimento delle autorità dello Stato nel proteggere adeguatamente le donne vittime dei loro partner o ex partner». È quindi evidente che tale censura mossa dal Comitato CEDAW al Governo italiano impone alle istituzioni, facendo seguito alla ratifica della Convenzione di Istanbul di rilevare in maniera adeguata le dimensioni del femminicidio in Italia, i fattori di discriminazione strutturale correlati al femminicidio, e la risposta istituzionale a tutte le forme di violenza che lo precedono, al fine di identificare in maniera puntuale le modifiche normative e le ulteriori misure necessarie a rimuovere gli ostacoli materiali che, ad oggi, impediscono un’adeguata prevenzione del fenomeno, una efficiente protezione delle donne, un celere risarcimento del danno. Per questo è fondamentale che si istituisca una Commissione parlamentare che risponda al dovere istituzionale, oltreché internazionale, di domandarsi se è stato fatto tutto quello che si poteva fare o se occorre un cambiamento più strutturale nelle azioni di prevenzione e contrasto alla violenza sulle donne.
È allora forse il caso di ricordare che, mentre la maggior parte dei Paesi latinoamericani ad oggi dispone di osservatori e di raccolte che consentono di avere dati disaggregati per genere, in Italia il numero dei femminicidi è noto quasi esclusivamente grazie alle volontarie della «Casa delle donne per non subire violenza» di Bologna che, dal 2005, li raccoglie a partire dalle notizie fornite dalla stampa.
Il nostro Paese infatti non dispone di un sistema di raccolta dati capace di rilevare tutti gli indicatori richiesti per il funzionamento del database sugli omicidi della Commissione economica per l’Europa delle Nazioni Unite, impedendo quindi anche una comparabilità dei casi di femminicidio a livello europeo. Quando il 14 luglio 2011 più esponenti del Comitato CEDAW, nel corso della sessione presso le Nazioni Unite dedicata al dialogo costruttivo tra rappresentanti del Governo e membri del Comitato CEDAW circa l’implementazione della CEDAW in Italia negli ultimi quattro anni, ha fatto richiesta all’Italia di fornire i dati sui femminicidi, il Governo italiano non è stato in grado di fornire questa risposta, semplicemente perché le istituzioni non raccolgono i dati sugli omicidi facendo utilizzo di tutti gli indicatori di genere e rendendo quindi impossibile distinguere quanti, tra gli omicidi di donne, possano considerarsi omicidi basati sul genere (femmicidi). Stando quindi a quanto rilevato dalla Casa delle donne di Bologna a partire dalle notizie rilevate sulla stampa, nel corso dell’anno 2012 sono stati registrati 124 casi di femmicidio, un numero assoluto inferiore a quello dell’anno precedente, ma da non considerarsi quale segnale di una diminuzione del fenomeno in quanto il numero di donne uccise nel 2012 è comunque superiore al numero relativo al quinquennio 2005-2009. Nel 2012 poi la stampa ha riportato 47 casi di tentato femmicidio, ossia tutti quegli eventi in cui la donna non ha perso la vita ma è stata comunque gravemente ferita: questo numero è da considerarsi sottostimato, posto che la stampa riporta in evidenza per lo più i casi eclatanti, in cui la morte della donna è stata evitata in extremis. Per quanto invece concerne i dati sugli autori, le vittime, il contesto dei femmicidi, nonché sulla relazione tra autori e vittime, si confermano i dati degli anni precedenti: il 69 per cento delle donne uccise sono italiane, il 73 per cento degli autori dei femmicidi sono italiani, il 60 per cento dei femmicidi avviene nel contesto di una relazione intima tra vittima e autore, in corso o conclusa. Nel 25 per cento dei casi le donne uccise erano in procinto di porre fine alla relazione o l’avevano già fatto, mentre nel 63 per cento il femmicidio si realizza in casa, sia essa della vittima, dell’autore o di un familiare. Inoltre, nel 2012 come negli anni precedenti, le donne non sono le sole vittime dei femmicidi: altre otto persone quest’anno, in maggioranza figli della donna o della coppia, hanno pagato con la vita questa estrema forma di violenza di genere.
Un dato interessante rilevato dall’indagine della Casa delle donne di Bologna, su cui pare opportuno soffermarsi, il solo a segnare una notevole discontinuità rispetto agli anni precedenti, è quello riguardante il numero di casi in cui la stampa riporta l’informazione sulla presenza di precedenti di violenza e maltrattamento contro la vittima effettuati dall’autore: se fino al 2011 in quasi il 90 per cento dei casi riportati dalla cronaca tale tipo di informazione non era reperibile, perché l’articolo non ne faceva cenno, oggi sappiamo invece che il 40 per cento delle donne uccise nel 2012 aveva subìto precedenti violenze da quel partner od ex che poi l’ha uccisa. E` un dato importante che segnala, da un lato, come la sensibilità e la cultura dei media siano cambiati e come la consapevolezza del legame tra violenza di genere e femminicidio sia diventata patrimonio comune, dall’altro, come sia assolutamente necessario e urgente fermare la violenza prima che essa giunga all’irreparabile.
Se nelle raccomandazioni del 2011 il Comitato CEDAW ha accolto con favore l’approvazione del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11, convertito, con modificazioni, dalla legge 23 aprile 2009, n. 38, che introduce il reato di stalking in Italia, il Piano nazionale contro la violenza di genere e lo stalking, così come la prima ricerca completa sulla violenza fisica, sessuale e psicologica nei confronti delle donne, sviluppata dall’ISTAT, lo stesso ha anche sottolineato la preoccupazione per «l’elevato numero di donne uccise dai propri partner o ex-partner, che possono indicare il fallimento delle Autorità dello Stato o membro nel proteggere adeguatamente le donne». In questa prospettiva, dunque, il dato summenzionato indica evidentemente la necessità e possibilità di prevenire questi delitti, offrendo una protezione maggiore e più adeguata alle donne che vivono situazioni di violenza.
È quanto chiesto dalla relatrice speciale Rashida Manjoo nelle raccomandazioni indirizzate all’Italia – che è tenuta a considerarle nell’ottica dell’avanzamento delle donne nella società e a risponderne negli anni successivi – formulate a seguito della sua missione ufficiale in Italia e del già citato «Rapporto Ombra».
Secondo Manjoo, in Italia la maggior parte delle violenze non sono denunciate perché perpetrate in un contesto culturale maschilista dove la violenza domestica non è sempre percepita come un crimine, dove le vittime sono economicamente dipendenti dai responsabili della violenza e persiste la percezione che le risposte fornite dallo Stato non sono adeguate per riconoscere il fenomeno, perseguire per via legale gli autori di tali crimini e garantire assistenza e protezione alle vittime. Nel rapporto dell’ONU si rileva poi che in Italia gli stereotipi di genere sono profondamente radicati e predeterminano i ruoli di uomini e donne nella società – analizzando i dati concernenti la presenza nei media, il 46 per cento delle donne appare associato a temi quali il sesso, la moda e la bellezza e solo il 2 per cento a questioni di impegno sociale e professionale. Iniziative italiane come il Piano di azione nazionale contro la violenza non hanno portato miglioramenti significativi e, inoltre, la mancanza di dati ufficiali disaggregati per genere, raccolti da istituzioni nazionali, impedisce di misurare accuratamente la portata del fenomeno. Si tratta di una grave mancanza del nostro Paese, che non ha ancora dato seguito alle numerose sollecitazioni da parte degli organismi internazionali che richiedono a tutti gli Stati di predisporre strumenti adeguati per il monitoraggio del fenomeno. In particolare, la Relatrice speciale invita l’Italia a utilizzare categorie adeguate per la classificazione degli omicidi di donne, che tengano conto della dimensione di genere, e ad adottare gli indicatori ONU per la raccolta disaggregata dei dati. Infine, Manjoo, rilevando che «Il quadro politico e giuridico frammentario e la limitatezza delle risorse finanziarie per contrastare la violenza sulle donne [ … ] ostacolano un’efficace ottemperanza dell’Italia ai suoi obblighi internazionali», nelle sue conclusioni dichiara che l’attuale situazione politica ed economica del nostro Paese non può essere utilizzata come giustificazione per la diminuzione di attenzione e risorse dedicate alla lotta contro tutte le manifestazioni della violenza su donne.
Sulla base di questi presupposti è stato presentato un disegno di legge per istituire una commissione bicamerale sul fenomeno dei femmicidi e dei femminicidi (atto Senato n. 860), con il compito di verificare se fosse stato fatto tutto quello che si poteva fare o se occorresse un cambiamento più strutturale nelle azioni di contrasto alla violenza sulle donne. Con l’approssimarsi della fine della legislatura, pero, lo strumento della commissione bicamerale potrebbe rivelarsi non più perseguibile, in ragione dei tempi di approvazione della legge istitutiva.
Appare pertanto opportuno individuare uno strumento più agile, compatibile con i tempi a disposizione: si propone, dunque, l’istituzione di un’apposita commissione parlamentare d’inchiesta monocamerale che, in un anno, dovrà compiere un lavoro di approfondimento sul tema specifico del femminicidio e su ogni forma di violenza di genere, svolgendo indagini sulle reali dimensioni, condizioni, qualità e cause del fenomeno. Dovrà inoltre monitorare la concreta attuazione della Convenzione di Istanbul sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, ratificata dall’Italia con legge 27 giugno 2013, n. 77, e di ogni altro accordo sovranazionale e internazionale in materia, nonché della legislazione nazionale ispirata agli stessi princìpi, con particolare riguardo al decreto-legge 14 agosto 2013, n. 93, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 ottobre 2013, n. 119. Sarà inoltre chiamata ad accertare le possibili incongruità e carenze della normativa vigente rispetto al fine di tutelare la vittima della violenza e gli eventuali minori coinvolti, come pure ad analizzare gli episodi di femminicidio, verificatisi a partire dal 2011, per accertare se siano riscontrabili comportamenti ricorrenti, valutabili sul piano statistico, allo scopo di orientare l’azione di prevenzione.
Compito della Commissione sarà anche quello di accertare il livello di attenzione e la capacità d’intervento delle autorità e delle pubbliche amministrazioni, centrali e periferiche, competenti a svolgere attività di prevenzione e di assistenza, nonché di proporre soluzioni di carattere legislativo e amministrativo al fine di realizzare la più adeguata prevenzione e il più efficace contrasto del femminicidio e, più in generale, di ogni forma di violenza di genere, nonché di tutelare la vittima della violenza e gli eventuali minori coinvolti.