Il 18 gennaio il Senato ha approvato, con 227 sì e 5 astenuti, l’istituzione di una Commissione d’inchiesta monocamerale contro il femminicidio e contro ogni forma di violenza di genere. La proposta era stata depositata il 26 ottobre scorso. Insolitamente alto il numero dei senatori che hanno sottoscritto la richiesta: ben 64. Prime firmatarie due ministre dell’attuale governo Gentiloni: Valeria Fedeli e Anna Finocchiaro. Sulle caratteristiche del mandato e della Commissione abbiamo dato conto qualche giorno fa (leggi l’articolo).
Vogliamo oggi proporre all’attenzione dei lettori di Felicità Pubblica il testo della relazione che accompagna il provvedimento. Si tratta di un contributo estremamente interessante e corposo, che merita di essere pubblicato nella sua interezza. Per questo abbiamo scelto di dividere il testo in due parti. La prima ripercorre l’evoluzione del concetto di femminicidio – da Diana Russell a Marcela Lagarde – e la progressiva affermazione della sua rilevanza giuridica – dai primi interventi nel diritto penale alla storica sentenza «Campo Algodonero» del 2009.
Istituzione di una Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio, nonché su ogni forma di violenza di genere
Onorevoli Senatori. – Oggi sembra quasi una banalità ripetere i dati dell’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) risalenti al 2002: la prima causa di uccisione nel mondo delle donne tra i 16 e i 44 anni è l’omicidio da parte di persone conosciute, in particolare da parte di partner ed ex partner.
Siamo giunti così` al rapporto dell’OMS del 2013, il più grande studio mai fatto sugli abusi fisici e sessuali subiti dalle donne in tutte le regioni del pianeta (141 ricerche effettuate in 81 Paesi), secondo cui la violenza contro le donne costituisce una questione strutturale globale: il 35 per cento delle donne subisce nel corso della vita qualche forma di violenza. Se il dato ci appare oggi evidente, solo negli anni Novanta non era così e, quando alcune criminologhe, studiando gli omicidi volontari di uomini e donne, poterono verificare la specificità degli omicidi di donne che, a differenza degli omicidi maschili, commessi da sconosciuti nell’ambito di episodi di criminalità, venivano invece commessi in maniera quasi assoluta da coniugi, familiari e persone conosciute, decisero di «nominare» questa triste realtà. Fu una scelta politica: la categoria criminologica del «femicide» (femmicidio) evidenziava che il reato di omicidio volontario colpiva le donne in maniera specifica nell’ambito familiare, spesso con motivazioni che poggiavano su una cultura discriminatoria, che viene definita patriarcale, e attraversa tutti i Paesi del mondo. Nominare questa specificità ha consentito di rendere visibile il fenomeno, studiarlo, potenziare l’efficacia delle risposte punitive. Il termine «femmicidio» (femicide) è stato diffuso con questo significato per la prima volta da Diana Russell che, nel 1992, nel libro Femicide: The Politics of Woman Killing, attraverso l’utilizzo di questa nuova categoria criminologica, ha «nominato» la causa principale degli omicidi nei confronti delle donne: una violenza estrema da parte dell’uomo contro la donna «perché donna».
La teoria di Diana Russell, secondo cui «il concetto di femmicidio si estende al di là della definizione giuridica di assassinio e include quelle situazioni in cui la morte della donna rappresenta l’esito/la conseguenza di atteggiamenti o pratiche sociali misogine», è oggi universalmente nota e utilizzata da numerose scienziate per analizzare le varie forme di femmicidio. Questo neologismo, successivamente, è stato ripreso dalle sociologhe, antropologhe e criminologhe messicane che, a partire dalla denuncia della natura misogina delle barbare mutilazioni e uccisioni di donne i cui corpi sono stati rinvenuti nei pressi di Ciudad Juárez, verificando come molto spesso questi fatti fossero possibili per via di una inefficace risposta delle istituzioni al fenomeno della violenza maschile sulle donne, hanno coniato la categoria sociologica del «femminicidio» per descrivere ogni forma di discriminazione e violenza rivolta contro la donna perché donna. Se secondo la criminologa statunitense «tutte le società patriarcali hanno usato – e continuano a usare – il femminicidio come forma di punizione e controllo sociale sulle donne», similmente l’antropologa e deputata messicana Marcela Lagarde, considerata la teorica del femminicidio, sostiene che «la cultura in mille modi rafforza la concezione per cui la violenza maschile sulle donne è un qualcosa di naturale, attraverso una proiezione permanente di immagini, dossier, spiegazioni che legittimano la violenza» tale per cui uno dei punti chiave del femminicidio è l’essere di fronte ad una «violenza illegale ma legittima».
Il femminicidio, nell’analisi di Marcela Lagarde e delle numerose altre scienziate che hanno compiuto nel mondo studi su questo tema, è un problema strutturale, che va al di là degli omicidi delle donne, riguarda tutte le forme di discriminazione e violenza di genere, che sono in grado di annullare la donna nella sua identità e libertà non soltanto fisicamente, ma anche nella dimensione psicologica, nella socialità, nella partecipazione alla vita pubblica. Usando le parole di Lagarde, infatti, femminicidio è «la forma estrema di violenza di genere contro le donne, prodotto della violazione dei suoi diritti umani in ambito pubblico e privato, attraverso varie condotte misogine – maltrattamenti, violenza fisica, psicologica, sessuale, educativa, sul lavoro, economica, patrimoniale, familiare, comunitaria, istituzionale – che comportano l’impunità delle condotte poste in essere tanto a livello sociale quanto dallo Stato e che, ponendo la donna in una posizione indifesa e di rischio, possono culminare con l’uccisione o il tentativo di uccisione della donna stessa, o in altre forme di morte violenta di donne e bambine: suicidi, incidenti, morti o sofferenze fisiche e psichiche comunque evitabili, dovute all’insicurezza, al disinteresse delle istituzioni e alla esclusione dallo sviluppo e dalla democrazia». In questa senso, l’utilizzo del termine femminicidio assolve alla funzione di individuare una «responsabilità sociale» nel perdurare, ancora oggi, di una situazione di diffusa subordinazione sociale delle donne, che le rende soggetti discriminabili, violabili, uccidibili.
Il neologismo di cui si tratta è salito alla ribalta delle cronache internazionali sulla scia del film Bordertown, in cui si racconta dei fatti di Ciudad Juárez, città al confine tra Messico e Stati Uniti, dove dal 1992 più di 4.500 giovani donne sono scomparse e più di 650 stuprate, torturate e poi uccise ed abbandonate ai margini del deserto, il tutto nel disinteresse delle istituzioni, con complicità tra politica e forze dell’ordine corrotte e criminalità organizzata, ed attraverso la possibilità di insabbiamento delle indagini, esacerbata dalla cultura machista dominante, riflessa anche in un sistema legislativo esplicitamente discriminatorio nei confronti delle donne, attraverso disposizioni contenute nel codice penale dello Stato di Chihuahua che, ad esempio, attenuavano o escludevano la responsabilità per determinate forme di violenza commesse in danno delle donne (come, ad esempio, la non punibilità dello stupro commesso in danno della coniuge o della concubina). La storia è iniziata quando le donne messicane, grazie alla loro attività di denuncia della responsabilità istituzionale per il perdurare di questi crimini, per tutte le violazioni dei diritti umani delle donne che continuavano a restare impunite, hanno sostenuto l’elezione di Marcela Lagarde al Parlamento: Lagarde si è quindi spesa in prima persona per la creazione di appositi organismi istituzionali di indagine dislocati in tutti gli Stati federati e coordinati a livello federale. Nel 2003 promosse l’istituzione, presso il Senato, della «Commissione speciale per le indagini sui casi di uccisioni di donne a Ciudad Juárez», e nel 2004, alla Camera, della «Commissione speciale sul femminicidio», che stabilì accordi di collaborazione con i Governi degli Stati federati, i tribunali, le commissioni indipendenti per i diritti umani, le università, le organizzazioni della società civile, al fine di effettuare indagini in maniera trasparente sulla violenza femminicida e fornire informazioni attendibili ai cittadini. Il sistema creato dalla Lagarde è divenuto emblema di un modello responsabile di approccio da parte del Parlamento al problema della violenza maschile sulle donne, che parte dalla volontà di conoscere l’entità e le caratteristiche della vittimizzazione e di rilevare i motivi di fallimento del modello legislativo esistente, al fine di una sua efficace e strutturale modificazione. La Commissione, presieduta da Lagarde, ha rielaborato le informazioni reperite presso varie istituzioni (procure generali, organizzazioni non governative-ONG, istituzioni di donne e di statistica, Corte suprema, organizzazioni civili, giornali) verificando che l’85 per cento dei femminicidi messicani avveniva in casa per mano di parenti e riguardava non soltanto le donne indigene ma anche studentesse, impiegate, donne di media borghesia. Ogni Stato del Messico è stato mappato: dati ufficiali e dati delle ONG, situazione legislativa, misure adottate per il contrasto alla violenza di genere, numero dei centri antiviolenza e dei progetti sul territorio indirizzati alle donne. La comparazione dei dati ha consentito di verificare che il 60 per cento delle vittime di femminicidio aveva già denunciato episodi di violenza o di maltrattamento.
In Messico, e a seguire in numerosi altri Paesi latinoamericani, le istituzioni hanno scelto di fare propria la categoria del femminicidio e utilizzarla ai fini dello svolgimento delle rilevazioni dei dati e nella seguente riforma legislativa. L’utilizzo da parte delle istituzioni di questa lente di analisi della violenza maschile sulle donne ha determinato l’insorgere di una consapevolezza nella società civile e nelle istituzioni sulla dimensione strutturale della violenza maschile sulle donne, e sulla necessità di un approccio strutturale per eliminare i pregiudizi che ne stanno alla base e che inibiscono anche l’efficace funzionamento delle istituzioni nel prevenirla e perseguirla adeguatamente. Gli esiti delle indagini sul femmicidio e sul femminicidio, condotte sull’esempio del Messico in numerosi altri stati latinoamericani, hanno reso quindi possibile ricostruire nelle sue reali dimensioni la natura strutturale della discriminazione e della violenza di genere e, di conseguenza, la responsabilità istituzionale per la mancata rimozione dei fattori culturali, sociali ed economici che la rendono possibile.
Questo ha consentito anche un approccio più consapevole dei legislatori alle riforme normative che, a quel punto, si profilavano indispensabili. La maturata consapevolezza ha cosı` determinato l’insorgere dell’istanza di un utilizzo simbolico anche del diritto penale, mediante l’introduzione del reato di femmicidio o di femminicidio o di aggravanti «di genere», laddove quelle medesime condotte prima erano attenuate o restavano impunite proprio perché commesse nei confronti delle donne. In particolare, nell’area latinoamericana, l’introduzione nel diritto penale di fattispecie/aggravanti di genere veniva raccomandato nell’«Informe hemisférico» dal «Mecanismo de Seguimiento de la Implementación de la Convención Interamericana para Prevenir, Sancionar y Erradicar la Violencia contra la Mujer», come misura attuativa dell’articolo 7, lettera c), della Convenzione, e per alcuni Paesi, tra cui il Messico, è stata suggerita anche dal Comitato istituito dalla Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna (Comitato CEDAW) come «misura speciale temporanea» capace di fungere al contempo sia da deterrente all’impressionante numero di uccisioni di donne in quanto donne, sia da risarcimento simbolico al disinteresse storico del sistema giuridico per la protezione della vita e dell’integrità delle donne. Attualmente, i Paesi che hanno introdotto nei propri ordinamenti interni il reato di femmicidio o di femminicidio sono Costa Rica, Guatemala, Messico, Venezuela, Cile, El Salvador, mentre progetti di legge per la codificazione del reato di femmicidio o di femminicidio sono stati presentati a Panama, in Argentina, Nicaragua, Colombia, Honduras. Il bene giuridico tutelato è il diritto della singola donna e del genere femminile ad una vita libera dalla violenza e da ogni forma di vessazione discriminatoria basata sul sesso, e dunque il diritto alla vita ed all’integrità psicofisica, senza discriminazioni basate sul sesso. Emblematico, per capire il contesto in cui sorge l’esigenza di codificare il reato di femmicidio/femminicidio, l’appello dell’ambasciatrice di Amnesty International Hilda Morales ai legislatori per l’introduzione del reato di femminicidio nel codice penale, sulla base del fatto che «il codice penale è una Costituzione in negativo» e dunque si rende necessaria al fine di «garantire l’integrità fisica senza discriminazioni».
Tuttavia, la trasposizione dei concetti socio-crimino-antropologici di femmicidio e di femminicidio in una fattispecie penale ha sollevato non poche sfide giuridiche connesse all’individuazione delle condotte da incriminare, alla differenziazione del reato di femmicidio/femminicidio rispetto alle altre forme di violenza di genere già tipizzate ovvero alla considerazione di una aggravante di reati connotati perlopiù in maniera neutra dal punto di vista della parte offesa e dell’aggressore. Per quanto attiene alla costruzione della fattispecie criminale, si è posto in via principale il problema della delimitazione della condotta punibile. Se infatti il femmicidio è «facilmente» identificabile nella condotta di chi uccide una donna in ragione del suo genere di appartenenza, il femminicidio al contrario include una vasta gamma di condotte discriminatorie e violente rivolte contro la donna «in quanto donna», che rappresentano una violazione dei suoi diritti fondamentali, in quanto la eliminano fisicamente o annullano la sua possibilità di godere delle libertà concesse invece agli altri consociati (maschi). Di qui la difficoltà di «formalizzare» giuridicamente la categoria in ambito penale nel rispetto del principio di tassatività.
Nell’ambito del diritto umanitario internazionale, i diritti delle donne sono affermati da numerose convenzioni dell’ONU e Carte regionali. Tra queste, vale la pena ricordare la principale, la Convenzione delle Nazioni Unite sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna (CEDAW, ratificata dall’Italia ai sensi della legge 14 marzo 1985, n. 132) e, a livello regionale, la Convenzione interamericana di Belèm do Parà (Convenzione interamericana sulla prevenzione, punizione e sradicamento della violenza contro le donne), la Convenzione di Istanbul (Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, fatta a Istanbul l’11 maggio 2011 e ratificata dall’Italia ai sensi della legge 27 giugno 2013, n. 77) e il Protocollo di Maputo aggiuntivo alla Carta africana sui diritti dell’uomo e dei popoli. La Conferenza mondiale dell’ONU sulle donne di Pechino ha poi sancito ufficialmente che i diritti delle donne sono diritti umani e che la violenza di genere costituisce una violazione dei diritti fondamentali delle donne. Ne consegue, per gli Stati, l’obbligazione di garantire alle donne una vita libera da ogni forma di violenza, solitamente declinata come «obbligazione delle 5 P»: to promote, promuovere una cultura che non discrimini le donne; to prevent, adottare ogni misura idonea a prevenire la violenza maschile sulle donne; to protect, proteggere le donne che vogliono fuggire dalla violenza maschile; to punish, perseguire i crimini commessi nei confronti delle donne; to procure compensation, risarcire – non solo economicamente – le vittime di violenza sulle donne.
Alla fine del 2009, per la prima volta nella storia del diritto internazionale umanitario, uno Stato è stato dichiarato responsabile per i femminicidi avvenuti sul suo territorio. Per la prima volta, nella storica sentenza «Campo Algodonero», la Corte interamericana per i diritti umani, in data 10 dicembre 2009 (giorno in cui si commemora la firma della Dichiarazione universale sui diritti umani) cita per la prima volta il femminicidio, quale omicidio di una donna basato sul genere. La sentenza di «Campo Algodonero», lungi dal costituire un attacco della comunità internazionale allo Stato messicano, rappresenta uno snodo fondamentale nella giurisprudenza sui diritti umani, perché la Corte interamericana si è fatta garante, attraverso i propri meccanismi, del rafforzamento dello stato di diritto e delle sue istituzioni democratiche, così come dello sviluppo umano nelle società, in un’ottica di genere. Sullo Stato messicano, infatti, incombe, ai sensi dell’articolo 7 della Convenzione di Belém do Parà, l’obbligazione di utilizzare la dovuta diligenza per prevenire, sanzionare ed eradicare la violenza sulle donne. In generale, tale obbligazione incombe pure su tutti gli Stati che hanno ratificato la CEDAW per cui, ai sensi dell’articolo 2 della Convenzione, già dal 1992, si è ritenuto che gli Stati possono essere responsabili di atti privati se non adottano misure adeguate ad impedire la violazione dei diritti (da parte dei singoli), ad assicurare le indagini e la punizione degli atti di violenza o a risarcire le vittime. Analogamente si è espressa l’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 1993 e la Piattaforma di Pechino, mentre la rappresentante speciale delle Nazioni Unite sulla violenza sulle donne già da tempo ha dato atto dell’esistenza di una norma pattizia, nel diritto internazionale consuetudinario, che obbliga gli Stati ad utilizzare la dovuta diligenza nel prevenire e contrastare la violenza sulle donne, dedicando a questo tema anche il suo ultimo rapporto annuale presentato il 3 marzo 2013 al Consiglio dei diritti umani, in cui approfondisce il contenuto della responsabilità degli Stati nell’esercizio della dovuta diligenza per l’eliminazione di ogni forma di violenza nei confronti delle donne.