La settimana scorsa ci siamo soffermati sulla seconda edizione dell’Annual Report di ForumPA, punto di riferimento per i soggetti pubblici e privati nei processi di cambiamento e innovazione tecnologica, istituzionale e organizzativa della Pubblica Amministrazione (leggi prima parte).
Vorremmo oggi riprendere l’argomento proponendo ai nostri lettori il testo dell’intervento tenuto da Carlo Mochi Sismondi, presidente di Forum PA, il 19 dicembre scorso a Roma, in occasione della presentazione del Report.
Si tratta di un contributo di grande interesse che merita attenzione. Senza scadere in atteggiamenti liquidatori Carlo Mochi Sismondi evidenzia i limiti dell’attuale stagione di riforma della PA rammentando che “l’innovazione non si fa con le norme e neanche solo con le visioni strategiche: è questione di paziente costruzione di percorsi di cambiamento, di attenzione e accompagnamento, di cassette degli attrezzi e di formazione, di empowerment delle organizzazioni e di engagement delle persone”.
E così un “impianto normativo bulimico” e un “deficit di fiducia nell’amministrazione”, mai dichiarato ma assolutamente radicato, finiscono per produrre effetti esattamente contrari alle aspettative e alle attese. I veri protagonisti della riforma – la dirigenza e il personale – restano in silenzio e vengono trasformati in oggetti passivi cui “infliggere” interventi “punitivi”. Il risultato consiste nel rafforzare quella “burocrazia difensiva” per cui “alla fine è meglio star fermi che rischiare”.
Il frutto mancato
La mole e la ricchezza di temi raccolti nell’annuario che oggi vi presentiamo, che vuole essere una sorta di compendio dell’innovazione della PA nel 2016, e anche i tanti dati che la relazione di Gianni Dominici ci ha illustrato, possono essere presi a convincente testimonianza dell’ambizioso e coraggioso piano di riforme che il Governo Renzi ha messo in campo in questi 12 mesi. Moltissimi sono i provvedimenti approvati e molti anche quelli che sono ancora oggi in sospeso, con incerta sorte. Molta carne al fuoco quindi, eppure una lettura d’insieme ci restituisce un senso d’incompiutezza e d’insoddisfazione. Ancora una volta, viene da pensare, dello sforzo riformatore abbiamo sopportato la fatica, ma non abbiamo gustato il frutto. Il “frutto mancato” è purtroppo un’immagine consueta nel quarto di secolo trascorso da quella legge 241/90 che diede inizio ad un susseguirsi di “riforme epocali” dell’amministrazione pubblica, tutte pensate per essere risolutive e tutte archiviate con sovrabbondanti, ma spesso inapplicati, risultati normativi e scarsissimi effetti sulla vita dei cittadini e delle imprese.
Alla fine dell’anno, che coincide anche con la fine di un ciclo di Governo caratterizzato da una fortissima spinta all’innovazione e dallo slogan “L’Italia cambia verso…”, è quindi quanto mai necessario interrogarci, con sereno ancorché preoccupato giudizio, sul perché di questa continua dimostrazione di impossibilità e di incapacità di cogliere i frutti del cambiamento.
Eppure questa volta il piano della riforma della PA era chiaro e complessivamente ben articolato. Partiva dall’aver individuato quattro obiettivi precisi già indicati nella famosa lettera ai dipendenti pubblici del maggio del 2014:
Cosa allora, nonostante la corretta visione iniziale, non ha funzionato? Il primo e più grave limite di questa ondata riformatrice, particolarmente imponente nella sua dimensione, è ahimè condiviso anche da tutte le azioni dei Governi precedenti: l’illusione che l’innovazione sia un problema di norme. Mentre ancora erano da applicare molte parti delle riforme precedenti, persino nei loro principi da tutti condivisi, si sono alluvionati prima il Parlamento e poi le amministrazioni con centinaia di nuovi provvedimenti con la speranza che la quantità facesse premio sulla costanza dello sforzo per la loro effettiva attuazione. Ma l’innovazione non si fa con le norme e neanche solo con le visioni strategiche: è questione di paziente costruzione di percorsi di cambiamento, di attenzione e accompagnamento, di cassette degli attrezzi e di formazione, di empowerment delle organizzazioni e di engagement delle persone. Una riforma fatta di norme che rinnovellano altre norme, in una sorta di gioco delle scatole cinesi dove la forma diventa contenuto, non porta all’innovazione, ma è foriera di quella paralisi da sovrabbondanza normativa che è, come vedremo, la condizione attuale di molte amministrazioni.
Non serviva quindi una nuova riforma, centinaia e centinaia di nuovi articoli di legge, un nuovo titolo da affiancare al nome di un nuovo ministro, ma un investimento serio di risorse economiche, professionali e politiche per accompagnare il cambiamento dei comportamenti in un clima di fiducia.
La visione della PA che questo castello di norme ha disegnato ha inoltre alcune carenze ontologiche che ne hanno minato la fattibilità, nonostante l’impianto normativo bulimico. La prima e più grave è stata quella di non aver fatto un corretto ed onesto esame delle ragioni che hanno portato al fallimento le precedenti riforme, reiterando gli stessi difetti strutturali che ne hanno impedito il successo. In questo senso è ancora una volta vero che senza memoria non c’è futuro.
La centralizzazione, la chiusura in cerchi (o “gigli”) più o meno magici, ha contraddistinto e contraddistingue quindi ancora, nella nostra fotografia di fine anno, le amministrazioni, con il risultato di negare quel paradigma del “governo con la rete”, della continua negoziazione in un processo decisionale multistakeholder, dell’imparare dalla complessità, della costruzione di “valore pubblico” che è invece il frutto migliore della moderna riflessione sull’amministrazione pubblica. Si dà invece spazio a rigurgiti ingenuamente efficientisti che, nati dal New Public Management degli anni ottanta dello scorso secolo, non hanno trovato mai piena realizzazione nel nostro Paese, ma ci hanno lasciato l’inappagato desiderio di una PA organizzata come azienda. Immagine che è stata per altro abbandonata da tutte le democrazie moderne.
Ma questa managerialità fordista (di cui la smania dei “tornelli” e l’ossessione per le timbrature sono sintomo caricaturale), questo centralismo efficientista porta con sé ancora due altri gravi pericoli:
Questi sono i limiti di un’impostazione che non è stata “rivoluzionaria”, ma è partita anzi da una visione piuttosto vecchia dell’amministrazione, del suo ruolo e delle sue relazioni con il resto del mondo. La PA, che viene delineata dalla riforma infatti, è una PA rinnovata ma anche incredibilmente uguale a se stessa, soggetto diverso e lontano dalle dinamiche sociali e culturali in atto in questo paese. La riforma infatti elude una domanda: la PA che abbiamo è quella che ci serve? Forse per rispondere a questa domanda, che per altro è alla base di molte riflessioni politiche internazionali a cominciare dal documento “Governance pubblica per una crescita inclusiva “, bisogna rifarsi ad alcuni fenomeni distintivi di questo nostro confuso tempo che è fatto sì di sfiducia, di scontento e di rabbia, ma anche di:
La riforma sfiora solamente questi nuovi paradigmi e conseguentemente i decreti attuativi che ne sono conseguiti e che sono il vero portato del 2016 presentano luci ed ombre:
L’intero annuario esaminerà in dettaglio questi campi, ci limitiamo quindi ad un’analisi complessiva che non può che partire dalla constatazione che essi pongono mano a problemi storici della nostra amministrazione, che spesso (non sempre) dimostrano buon coraggio riformatore e che possono essere quindi utili strumenti, ma anche che sono tutti comunque figli di quell’impostazione, a nostro parere superata, che abbiamo testé descritto.
Tre sono i principali limiti di questa fase attuativa, sono gravi e pregiudizievoli, ma per fortuna siamo solo all’inizio del percorso e molto si può ancora fare per correggerli:
E ora? L’amministrazione è ora in grave sofferenza e l’intera società italiana soffre con essa e vede compromessa la speranza di ripresa e di crescita del benessere equo e sostenibile. La strada che si è intrapresa non sta infatti portando a quel cambiamento che ci aspettavamo proprio lì, nella PA, dove sarebbe stato più necessario e il trend della riforma non è affatto confortante. Anche qui, in senso prospettico, tre sono gli aspetti da guardare con maggiore attenzione in progress da oggi alla futura attuazione delle norme:
Qui, su queste scrivanie deluse e in questo mare di carta scosso da ondate successive di novità sempre solo normative, nasce il virus della “burocrazia difensiva” che più volte ci è capitato di descrivere. L’ecosistema che abbiamo sopra descritto, insieme a una normativa bulimica e sovrabbondante che, come un tumore maligno, si sta mangiando l’organizzazione degli uffici, e alla “pancia” del Paese a cui si tributano omaggi sotto forma di sciagurata confusione tra fisiologia e patologia, fa sì che per i dirigenti pubblici alla fine è meglio star fermi che rischiare. Meglio avere un ordine che avere un’iniziativa. Meglio porre un quesito che firmare.
Come sempre la realtà ha molte facce e a questi limiti, che ci impediscono di gustare il faticato frutto di un cambiamento, si affiancano anche importanti esempi di innovazione realizzata, di ricche reti relazionali e di attenzione alla costruzione di valore pubblico e di capitale sociale. Questi casi, se non smentiscono la nostra preoccupata analisi che supera il giudizio su questo o quel Governo, ma rivolge una critica radicale a tutta la metodologia dell’innovazione, servono però a dirci che un’altra amministrazione è possibile. Che dove se ne danno le condizioni e si coniuga visione, lungimirante costanza, competenza e autonoma responsabilità può nascere un’amministrazione condivisa dove i cittadini, le imprese, i lavoratori pubblici e la politica lavorano tutti per obiettivi comuni e costruiscono una piattaforma abilitante per la nostra libertà positiva, che abiliti le nostre capabilities e permetta i nostri “functionings”.
Partire da questi esempi e farli divenire una guida al cambiamento non è facile, ma è possibile: la strada è segnata e non mancano neanche le risorse economiche che un PON Governance e Capacità amministrativa potrebbe, ove fosse attuato e implementato con cura e sollecito impegno, mettere pienamente a disposizione.
Se ripercorriamo in conclusione il percorso fatto insieme rileggiamo otto principi guida per un cambiamento positivo della PA secondo una moderna cultura riformista:
Partendo da questi punti, per me fondamentali, non tutto è perduto: ce la possiamo ancora fare. A patto di far presto, a patto di avere il coraggio di seguire strade nuove, a patto di prendere molto sul serio il rischio di ritrovarci l’anno prossimo a dire le stesse cose con un’opinione pubblica sempre più rabbiosa, con un’amministrazione sempre più debole e sfiduciata e una politica sempre più “marziana”.