Questa settimana Felicità Pubblica ha incontrato Giorgio Micoli del Circolo Arci di Chieti per conoscere meglio questa realtà abruzzese che da oltre 14 anni coinvolge i giovani del territorio e non solo in attività incentrate sulla partecipazione attiva e sul rispetto dei diritti umani.
Di seguito il testo dell’intervista video.
Come e quando nasce il circolo Arci di Chieti?
Il circolo Arci di Chieti nasce nel luglio 2002 dopo una serie di esperienze realizzate da un gruppo di persone che provenivano da diversi campi di intervento. Dall’operatore giovanile all’operatore sociale, allo psicologo al sociologo, all’esperto in progettazione o a chi in quei tempi già cominciava a macinare progettualità in ambito europeo sui temi dello sviluppo sostenibile, dell’intercultura e negli ambiti della dinamizzazione giovanile in genere. E’ stata, gioco forza, una maniera di mettere insieme diverse sinergie che poi hanno sviluppato la progettualità del circolo che dura tutt’oggi e che speriamo duri per molto altro tempo ancora.
Come è cambiata la vostra attività in questi 14 anni?
L’attività è cambiata perché è cambiato molto il contesto in cui questa attività si realizzava e si realizza, nel senso che noi abbiamo iniziato con un forte imprinting sul territorio. Tant’è vero che poi anni dopo aver fondato il circolo, qui a Chieti aprimmo anche un centro giovanile/culturale chiamato Officine culturali che per tanti anni è riuscito a sopravvivere nonostante tutto e tutti. Nel senso che era una struttura molto libera, totalmente autofinanziata, molto spesso non autosufficiente ma che comunque ha rappresentato per la città e per il territorio di Chieti un punto di riferimento per tanti giovani, sia per le attività che dentro Officine culturali si realizzavano, ma anche per quello che rappresentava il luogo stesso, cioè un luogo di libertà, di aggregazione, di libertà di espressione, di creatività. E quindi in quel periodo l’Arci di Chieti era molto legata al territorio del comune di Chieti, pur realizzando una serie di progettualità di carattere internazionale. Questo per noi è sempre stato il leit motiv delle nostre attività. Piano piano però la realtà locale è cambiata e questo nostro imprinting territoriale è venuto sempre meno, nel senso che ci siamo allargati, abbiamo iniziato a sondare altri territori della provincia, della regione e anche al di là. Abbiamo avuto dei progetti nei quali abbiamo attivamente collaborato ad esempio con l’Emilia Romagna. Quindi la nostra attività è cambiata sotto questo punto di vista, che non è un fatto negativo, anzi, l’aver allargato i propri orizzonti è certamente un fatto positivo. Rimane un po’ l’amarezza perché comunque è un circolo Arci fondato in questa città, ma che in questa città oramai non ha più quel ruolo e quella valenza che aveva fino a qualche anno fa.
In questi anni avete notato dei cambiamenti generazionali tra i ragazzi che partecipano alle vostre attività?
Beh diciamo che la crisi sociale ed economica il suo peso ce l’ha. Ora non so se questo dipende da questa crisi, ma c’è da dire che quello che abbiamo notato è che a Chieti l’impegno giovanile in questi anni si è un po’ calmato. Non vediamo più questa mobilità, questa dinamicità dei giovani. Devo dire che in questo ultimo annetto un po’ di cose stanno uscendo fuori e questo ci fa molto piacer. Però quello che abbiamo notato è che la città perde moltissimo le forze giovanili. Tantissimi ragazzi non vedono l’ora di andar via, di raggiungere quell’età per andar via, o perché vuoi fare l’università o perché vuoi fare il tuo lavoro o perché magari vuoi fare l’esperienza fuori. E questo per una comunità non è mai positivo, perché è chiaro che perdi il meglio delle tue forze e poi succede che molto spesso queste forze rimangono fuori, non ritornano in questa realtà. Questo probabilmente è uno dei cambiamenti maggiori e quindi poi per un’associazione che principalmente lavora con i giovani ti viene anche un po’ a mancare il terreno su cui lavorare. Ma noi, come ho detto prima, lavoriamo anche con i ragazzi della provincia, della regione, per cui continuiamo tranquillamente il nostro lavoro. Anzi molto spesso lavorare con le piccole comunità come Torino di Sangro, Fossacesia può essere molto più emozionante che magari lavorare con ragazzi di centri urbani grandi. Adesso mi tirerò dietro le invettive di chissà chi, però molto spesso si coglie ancora nei piccoli centri quella genuinità dei rapporti umani che spesso nelle grandi città si è un po’ persa.
Quali sono, ad oggi, i progetti che vi vedono coinvolti?
Noi stiamo lavorando su due filoni principali. Il primo è quello legato a un network europeo di cui l’Arci di Chieti è tra i fondatori che ha iniziato i suoi primi passi nel 2009 e che nel 2014 ha poi formalizzato la propria esistenza. Questo network si chiama ORA che è l’acronimo di Osserva Ripensa Agisci ed è un network tra associazioni europee, allo stato attuale siamo 15 associazioni provenienti da 9 Paesi diversi, non tutti membri dell’Unione Europea perché abbiamo anche una forte presenza dei Paesi balcanici, come Serbia e Bosnia, e anche di Paesi non più europei come la Gran Bretagna. Questo network ha come scopo principale quello di usare gli strumenti e le tematiche dello sviluppo sostenibile per agevolare i processi di dinamizzazione e inclusione giovanile. Proprio partendo dall’assunto di osservare il proprio territorio, ripensare il ruolo che ciascuno di noi come cittadino può avere nel proprio territorio e agire per fare in modo che ci sia uno sviluppo per noi chiaramente di tipo sostenibile del nostro territorio. Il network oramai è estremamente operativo e funziona molto bene. Abbiamo già una serie di progettualità per i prossimi due anni già approvate e pronte per partire che vanno da corsi di formazione e scambi giovanili, sui temi propri del network quindi sviluppo sostenibile come strumento di inclusione, ma abbiamo anche delle progettualità mirate a elevare la qualità del lavoro che le associazioni che fanno parte di questo network realizzano. Tant’è vero che già da ottobre inizieremo un processo, che durerà circa un anno, proprio legato a come migliorare il lavoro e l’operatività giovanile di tutte le associazioni coinvolte. Questo lo faremo tramite una visita di studio in Belgio a ottobre, un seminario in Germania (a Berlino) a febbraio e un corso di formazione finale a Banja Luka, in Bosnia, l’anno prossimo a maggio. Il tutto verrà poi riassunto in un manuale che verrà poi messo a disposizione non solo dei membri del network ma anche delle associazioni che saranno interessate a questa tematica. Questo quindi è uno dei filoni principali sul quale noi ci impegnamo tantissimo e crediamo molto in questo network perché ci siamo dentro dall’inizio. L’altro filone principale è quello dei diritti umani legati all’arte e alla creatività. E’ anche questa una progettualità di lungo periodo, iniziata due anni fa, e che si sta sviluppando in un prodotto finale che sarà una specie di handbook nel quale raccoglieremo tutte le esperienze realizzate fino ad adesso e cioè di come la creatività e l’espressività artistica possano contribuire da un lato a promuovere i valori dei diritti umani e sociali, in tutti i loro aspetti (da quelli più generali come la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo fino a quelli più particolari come i diritti dell’infanzia, dei lavoratori, ecc). Il tutto con il backgrpund dell’inclusione e della dinamizzazione dei giovani. In tutte queste progettualità sono stati coinvolti ragazzi di diversi Paesi europei, giovani artisti, videomaker, fotografi, pittori, fumettisti, graffitari e chi più ne ha più ne metta. E con loro abbiamo crato un percorso molto molto interessante. Questi due aspetti poi hanno anche una copertura, se vogliamo, di tipo istituzionale diversa perché con il network ORA noi ci appoggiamo molto al programma Erasmus +, mentre sul discorso dei diritti umani la nostra controparte è l’European Youth Foundation del Consiglio d’Europa.
Quali sono i punti di forza e quali quelli di debolezza del vostro circolo?
I punti di forza sono l’esperienza che in questi anni abbiamo acquisito. Il punto di debolezza potrebbe essere un po’ la location perché purtroppo in una regione come l’Abruzzo da parte delle istituzioni molto spesso c’è una mancanza di sensibilità nei confronti di ciò che è legato ai giovani, alla promozione culturale, ecc.
C’è un episodio che ricorda con maggiore coinvolgimento nel suo percorso all’interno dell’Arci?
Ce ne sono tanti perché quando si lavora con tante persone, in questi anni ne abbiamo incontrate migliaia, e non esagero, con ogni persona si instaura un rapporto particolare, con ogni gruppo che si viene a creare si creano dinamiche uniche. Però fra tutti il ricordo che emerge è quello legato all’episodio dell’11 settembre 2001, durante il quale noi stavamo ospitando un progetto nella zona di Roccamontepiano, con un gruppo composto da ragazzi italiani, spagnoli, libanesi e marocchini. Dovevamo fare una visita presso il Centro delle Case di Terra di Casalincontrada e durante il viaggio cominciarono ad arrivare alcuni messaggi che qualcosa era successo a New York. Arrivati nel bar della piazza di Casalincontrada iniziammo a vedere in tv le immagini di quello che era successo. Capimmo immediatamente che la cosa non era un incidente, ma qualcosa di più complesso. A un certo punto una delle due torri crollò in diretta e una delle ragazze libanesi si alzò in piedi facendo il segno di vittoria, dando un suo punto di vista molto gioioso rispetto a quella tragedia che stavamo vivendo. Immediatamente ci fu una spaccatura all’interno del gruppo, italiani e spagnoli da un lato e libanesi e marocchini dall’altro, nonostante eravamo alla fine del progetto per cui si era creata una bella dinamica all’interno del gruppo, si erano addirittura create alcune coppiette. C’era un feeling di gruppo molto forte. Ma in quel momento tutto era stato cancellato da quello che stavamo vedendo e dalla reazione di questa ragazza. Annullammo tutto, tornammo a Roccamontepiano, ci rimettemmo intorno a un tavolo e cercammo di capire quello che era successo e il perché di quella reazione. Uscì fuori che questa ragazza aveva avuto la famiglia completamente sterminata nei campi di Sabra e Chatila in Libano negli anni ’80 e che per lei vedere per una volta l’Occidente soffrire era un sentimento di rivalsa. E’ chiaro che dopo quel primo momento la ragazza stessa capì che da lì sarebbero partite tante cose che poi effettivamente si sono avverate. Però è bastato rimettersi intorno a un tavolo, parlarsi, confrontarsi, che immediatamente questa frattuta che si era creata è venuta meno e il gruppo è ritornato ad essere unito. Questo è il potere del dialogo, dell’intercultura, quindi finché continueremo ad alzare muri e a creare barriere non andremo molto lontano.
Infine un’ultima domanda, qual è secondo lei il fattore più importante per il raggiungimento della felicità pubblica?
Questa è una domanda complessa. Quello che direi è che un fattore fondamentale per il raggiungimento della felicità è quello della positività nei rapporti tra le persone. Oggi molto spesso, dai social network ai rapporti personali, c’è una violenza non sempre fisica ma anche verbale. Se noi riuscissimo a portare un po’ più in basso i toni delle comunicazioni tra le persone e quindi a creare una condizione di rapporti più rilassati, più rispettosi, questo potrebbe essere già un primo passo. Perché rispettare l’altro ed essere anche rispettati, è certamente un fattore fondamentale per l’inizio di un rapporto tra le persone sicuramente più pacifico e più tranquillo e più aperto anche all’ascolto, alla condivisione. Quando ci si parla, quando si riesce a parlare, e quindi a instaurare un rapporto che sia teso alla mutua conoscenza e rispetto, secondo me si è fatto già un 50% verso quel tendere alla felicità pubblica.