Le prime anticipazioni sono state comunicate a giugno scorso a Milano, in occasione dell’Edison Innovation Week; la presentazione del documento definitivo ha avuto luogo solo pochi giorni fa. Parliamo del Rapporto Cotec 2016 “Italia, CheFuturo! Gli italiani e la cultura dell’innovazione”. Giunto dopo le prime tre edizioni del 2009, 2010 e 2011, il Rapporto 2016 è stato supervisionato dal professor Riccardo Viale e dal giornalista Riccardo Luna, curato e realizzato dal Censis e sponsorizzato da CheBanca!
Forse non tutti sanno che la Fondazione per l’Innovazione Tecnologica Cotec è stata costituita nel 2001 con lo scopo di rafforzare la competitività tecnologica del nostro Paese. Si tratta di “una fondazione di diritto privato in cui trovano spazio, intorno al tema dell’innovazione tecnologica, le capacità, le esperienze e gli interessi delle istituzioni, delle imprese e del sistema della ricerca”. Sono soci fondatori la Banca Nazionale del Lavoro S.p.A., l’ENI S.p.A., Finmeccanica S.p.A., la Fondazione Monte Paschi di Siena, Intesa Sanpaolo S.p.A., Telecom Italia S.p.A., Unicredit Group S.p.A.
Non hanno bisogno di presentazioni il Censis e la sua lunga e autorevole attività di ricerca sociale.
Nella premessa al Rapporto si legge: “provando a sintetizzare, l’indagine (…) prende le mosse da tre considerazioni di fondo:
- la prima attiene al fatto che si è ritenuto opportuno investigare sul tema dell’innovazione dal punto di vista della domanda. E’ noto infatti che il tema viene quasi sempre interpretato e declinato come una questione di “offerta”: su quali innovazioni è opportuno investire? chi sono gli innovatori? Come si sostiene l’innovazione? Con quali risorse? Con quale assetto organizzativo?
- la seconda verte sul fatto che la rivoluzione digitale, con la sua capacità di produrre discontinuità e di tagliare trasversalmente ogni ambito dell’azione umana, è assurta e viene interpretata quasi univocamente come sinonimo di “innovazione”. E’ probabilmente vero che “today every business is a digital business”, ma il concetto di innovazione ha sicuramente un perimetro più ampio;
- la terza, è relativa all’opportunità/necessità di indirizzare l’indagine sugli orientamenti, atteggiamenti e comportamenti della popolazione italiana nel suo complesso e a tutto tondo”.
In sintesi, “le ragioni per cui è stato ritenuto importante disporre di una rappresentazione completa delle opinioni degli italiani in tema di innovazione, al di là dell’indubbio interesse scientifico, attiene all’esigenza di comprendere come far crescere la disponibilità dei cittadini ad investire nel nuovo, a mettersi sotto sforzo raccogliendo nuove sfide, ad alimentare una “voglia di futuro” senza la quale crescita economica e progresso sociale rischiano di rimanere parole vuote”.
Questi le impegnative questioni con cui si misura la ricerca del Censis, giungendo a esiti tutt’altro che scontati. Per questo intendiamo dedicare lo spazio necessario ad illustrare alcuni passaggi decisivi dell’indagine, a partire dalla densa prefazione scritta dal presidente del Censis, Giuseppe De Rita. Chi volesse consultare il testo integrale del Rapporto 2016 può farlo visionando la pagina web.
PREFAZIONE di GIUSEPPE DE RITA
Tutti coloro che si occupano di promuovere e sostenere l’innovazione sono affascinati dalla eccellenza dell’offerta cioè dal primato dei soggetti che lavorano nei livelli avanzati della ricerca scientifica, della tecnologia, della produzione di alta qualità. E chi consulta le tante ricerche che parlano di innovazione constata che esse sono calibrate sulla verifica di quel che tali soggetti (istituti di ricerca o grandi imprese) fanno per la promozione e la crescita del loro ruolo e delle loro attività. Sono gli innovatori che fanno oggi cultura dell’innovazione; e per certi versi è naturale che ciò avvenga.
Poi arriva sul tavolo una ricerca come quella che qui si presenta e ci si accorge che il campo meno considerato non è quello dell’offerta di innovazione ma quello della domanda, della verifica del sentiment collettivo nei confronti dell’innovazione, cioè della “propensione del corpo sociale, nei suoi diverse segmenti, ad aderire agli schemi nuovi che vanno affermandosi nei diversi campi di azione”. Può apparire poco prometeico questo gestire “schemi nuovi” Ma va notato che una società complessa come la nostra tende a non fuggire in avanti verso le magnifiche e progressive sorti della scienza e della tecnologia avanzata, ma tende piuttosto ad impostare “in schemi nuovi” i suoi interessi, i suoi bisogni, i suoi comportamenti individuali e collettivi.
Ne risulta un rapporto non unilaterale e dipendente fra la potenza dell’innovazione e il continuo cambiamento della società. Basterebbe, per averne conferma, il fatto che gli italiani vedono l’innovazione come processo trasversale, che si attua in orizzontale, con una “pletora” di soggetti praticamente senza coordinamento e senza un vertice di responsabilità sistemica (se si esclude un riferimento quasi formale del Presidente del Consiglio). E in questa pletora di soggetti entrano in campo iniziative a diverso tipo e consistenza, sia sul piano scientifico sia sul piano delle imprese, specialmente delle piccole imprese che per il 40% del campione risultano le più attente, anche rispetto alle grandi imprese che “investono molto in ricerca”, ad innovare i propri processi produttivi. E si cerca di farlo in simbiosi con la vita quotidiana (delle città, delle amministrazioni locali, degli stessi cittadini e consumatori, molto “attenti e attratti dalle novità”).
E si può capire come il riferimento ai piccoli imprenditori sia accompagnato dall’importanza che si attribuisce alle doti caratteriali di chi fa e promuove innovazione (creatività, intuito, attitudine al rischio, addirittura propensione a “debordare dalle regole stabilite”).
Si noterà, leggendo le pagine che seguono, che un tale processo di innovazione (condotto più nel quotidiano che nei grandi disegni verticalizzanti), potrebbe essere criticamente considerato, come un processo “casuale”, senza ricorso a precise intenzionalità e volontà progettuali. Ma casuale non è, se alla fine esso si attua in modo diffuso e quotidiano, concretamente nel contesto dello sviluppo economico e sociale; qualche volta risalendo verso i livelli di pura eccellenza (è di questi giorni il riconoscimento del Compasso d’oro alla Grivel, ad una azienda cioè che trent’anni fa era ancora una primordiale fornace di estrema provincia).
E così è comprensibile un po’ di orgoglio nazionale, ma per una volta non legato alle nostre “eccellenze” (come è d’abitudine quando di parla di ricchezze artistiche, monumentali e turistiche) ma piuttosto alla vitalità compatta e continuativa di tanti e tanti soggetti di quotidiana innovazione, ancorché apparentemente “disallineati”. A conferma che nel sistema italiano è la realtà che fa l’innovazione non viceversa. Chi ha vissuto del resto la saga della moltiplicazione imprenditoriale degli anni ’70 e ’80 non può non ricordare che fu “la pancia” della società che fece da motore a tale moltiplicazione non i grandi disegni di politica industriale.
Se l’innovazione non scompone la quotidianità degli interessi e dei soggetti, allora si può capire perché le attese di novità si orientano a dare continuo sostegno alla vita collettiva per come essa quotidianamente si svolge: con la prudenza del caso (ci si attende dall’innovazione tanti benefici ma anche tanti problemi); con la propensione a valutare l’innovazione “caso per caso”; con l’attenzione specialmente alle innovazioni nei settori più legati alla quotidianità (nella comunicazione come nei farmaci); con la consapevolezza che l’innovazione può accentuare, o addirittura creare, fenomeni di divario e disuguaglianza sociale; con la sensibilità prioritaria dei temi “sociali” (come nuove soluzioni in campo energetico e nuovi prodotti attenti all’ambiente).
In conclusione la società e l’innovazione si orientano non a contrapporsi ma ad operare in termini di condivisione di cammino comune come da sempre, in Italia, avvengono le trasformazioni reali.