Greenpeace, la nota organizzazione ambientalista, è impegnata da tempo in un bellissimo progetto di ricerca e sensibilizzazione per quanto riguarda l’inquinamento dei mari. Attraverso l’imbarcazione Rainbow Warrior III i ricercatori dell’Ismar e di altri istituti stanno per concludere la tappa del tour italiano #NoPlastic, poi si sposteranno altrove con il solito nobile scopo: studiare da vicino i livelli delle microplastiche tanto dannose per la nostra salute e purtroppo in grado di scatenare un meccanismo di contaminazione che potrebbe rivelarsi irreversibile.
Spiega infatti Francesca Garaventa, ricercatrice dell’Ismar di Genova e a bordo dell’imbarcazione nel tratto di mare compreso tra Genova e Pozzuoli: «Le microplastiche sono una minaccia per la salute del mare; dopo aver raccolto campioni d’acqua con tre diverse strumentazioni, che ci permettono un’analisi sia della colonna d’acqua che della superficie, li analizziamo in laboratorio per indagare il cosiddetto effetto cavallo di Troia, perché la plastica è un ottimo veicolo per le sostanze contaminanti».
La nave ammiraglia di Greenpeace è stata creata proprio a questo scopo, per portare avanti le campagne più impegnative, come questa di #NoPlastic, e poi poter fornire ai ricercatori materiale adeguato di studio. Uno studio che non si limita alla sezione dei materiali, come ad esempio le plastiche, ma che va molto più a fondo, fino alla pancia del pesce. «Sezioniamo l’apparato digerente dei pesci, dove si concentrano le microplastiche e i tessuti degli invertebrati», spiega Stefania Gorbi, ricercatrice del Politecnico delle Marche. «L’analisi chimica è importante per capire quali sono i rischi tossicologici che comportano le sostanze chimiche con cui la plastica è entrata in contatto».
L’Europa è il secondo produttore al mondo di plastica – prima è la Cina – e nel corso del 2015 la domanda di questo materiale è arrivata a toccare i 50 milioni di tonnellate, una quantità difficile anche solo da pensare. La plastica, usata soprattutto per gli imballaggi e per i vantaggi derivanti da un materiale che è leggero, economico e resistente, è però un autentico veleno per l’ambiente. Soprattutto quando poi, sempre più spesso ormai, confluisce nelle acque. Con il tempo la plastica diventa sempre più piccola, invisibile a occhio nudo e allora bisognerà parlare addirittura di nanoplastica. Con tutti i problemi che questo processo trascina con sé, perché frammenti tanto piccoli non necessitano neanche l’ingestione da parte degli organismi marini ma penetrano direttamente nei tessuti. Un discorso che, inevitabilmente, incide sull’alterazione della catena alimentare benché, al momento, trattandosi di un fenomeno che si sta studiando solo ora, non ci siano prove scientifiche della pericolosità per l’uomo. Va comunque da sé che sarebbe molto meglio non dover fronteggiare questo tipo di situazione. Invece, dal momento che esiste ed è tangibile, occorrono studi su studi per monitorare e verificare i livelli di nanoplastiche nei mari, fino a capirne la quantità e la pericolosità.
Ma come risolvere un problema che sta a monte? Secondo Serana Maso di Greenpeace, responsabile della campagna “Meno plastica, più Mediterraneo”, la risposta è semplice: «Riciclare non basta, il problema va risolto alla fonte. Bisogna ridurre la produzione e per questo chiediamo al ministro dell’Ambiente Galletti di impegnarsi per garantire la graduale eliminazione della plastica usa e getta, oltre a introdurre il principio “chi inquina paga”, così che siano produttori e importatori a farsi carico dei costi di smaltimento dei rifiuti».