E’ successo ancora. I valori dello sport sono stati di nuovo infangati dall’odio razziale e, in particolare, da un episodio che definire vergognoso è davvero riduttivo.
Adesivi con l’immagine di Anna Frank, la bambina simbolo dell’Olocausto, che indossa una maglia della Roma, affissi in uno stadio da tifosi laziali con l’obiettivo di insultare i propri avversari sportivi.
Qual è il senso dell’offesa? Davvero mi è difficile comprenderlo. Come se accostare il volto di una bambina che ha vissuto e raccontato un inferno, e che a causa di quell’inferno ha perso la vita ad appena 16 anni, ai colori della Roma fosse un insulto, o come se lo fosse utilizzare l’appellativo ebreo accostandolo alla parola romanista.
Eppure evidentemente per qualcuno lo è. Lo stesso qualcuno che in quello stadio neanche avrebbe dovuto esserci, dal momento che la curva Nord dedicata alla tifoseria laziale era stata chiusa per cori razzisti. Eppure questi beceri personaggi non solo sono entrati nell’impianto sportivo senza alcun problema, utilizzando la curva dedicata agli ultras romanisti, ma hanno anche approfittato del momento per lanciare insulti contro i loro rivali storici.
A distanza di appena 5 mesi da un altro spiacevole episodio – anche allora stigmatizzato in un nostro editoriale – è dunque accaduto di nuovo e siamo certi che purtroppo accadrà ancora, perché di persone ignoranti, razziste, antisemite o più semplicemente senza un briciolo di cuore né cervello, ne è pieno il mondo, e non soltanto dentro gli stadi.
Fortunatamente lo sdegno nei confronti di questo episodio è stato unanime, a cominciare dalla ferma presa di posizione del presidente della Repubblica Sergio Mattarella. «Il volto e le pagine del diario di Anna Frank, la sua storia di sofferenza e di morte a opera della barbarie nazista, hanno commosso il mondo», ha evidenziato il capo di Stato, «utilizzare la sua immagine come segno di insulto e di minaccia, oltre che disumano, è allarmante per il nostro Paese, contagiato dall’ottusa crudeltà dell’antisemitismo».
Sulla stessa lunghezza d’onda anche il premier Paolo Gentiloni che ha sottolineano: «E’ successo qualcosa di incredibile, inaccettabile, da non minimizzare e da non sottovalutare. Non sottovalutiamo i rischi del diffondersi di tensioni nel nostro tessuto sociale». E mentre il presidente della Lazio, Claudio Lotito, ha deposto ieri una corona di fiori alla Sinagoga, prendendo le distanze dal gesto e annunciando la volontà di promuovere viaggi ad Auschwitz ogni anno per circa 200 ragazzi, Efraim Zuroff, direttore del Centro Wiesenthal di Gerusalemme, ha dichiarato: «Non ci sono parole per condannare un gesto così vergognoso. Si banalizza la Shoah, si trasforma un’immane tragedia in una semplice bega fra tifoserie».
A mio avviso il vero insulto è stato quello di associare a sentimenti di astio, rabbia, rancore, odio, l’immagine di una bambina innocente che ha conosciuto il volto più crudele dell’umanità ma che, nonostante tutto, ha continuato a guardare il mondo con l’entusiasmo tipico della sua età. Lei, che nel buio di quella soffitta claustrofobica di Amsterdam, scriveva sul suo diario a quadretti bianchi e rossi: “Non penso a tutta la miseria, ma alla bellezza che ancora rimane”.
Ho visitato con sgomento Auschwitz a 11 anni, ho letto il diario di quella mia coetanea a 12 anni e l’ho riletto di nuovo a 19, sognando ogni volta per lei un destino diverso. E a 35 anni, visitando quella soffitta minuscola di Amsterdam, ho trattenuto il fiato e camminato in punta di piedi, proprio come aveva fatto lei per due lunghi anni, e pianto per quell’esistenza spezzata e per quelle di milioni di persone innocenti.
Per questo oggi non ci sto. Non accetto che la sua memoria venga infangata, perché quella bambina continua a vivere dentro di me e nel cuore di quanti hanno davvero compreso il suo dramma. Tutti gli altri, se non hanno l’intelligenza di rispettarla, abbiano almeno la decenza di continuare ad ignorarla.
Il direttore
Vignetta di copertina: Freccia.