I rohingya sono un gruppo etnico di religione islamica che, fino allo scorso agosto, vivevano in Birmania. Quest’estate però il governo del Myanmar ha deciso che i rohingya non erano più graditi: perseguitati e oggetto di violenze indicibili, i rohingya hanno dovuto abbandonare forzatamente le proprie abitazioni e scappare disperati dal territorio birmano.
Durante la fuga non sono mancati episodi di brutale violenza: famiglie separate, donne stuprate, bambini uccisi con diabolico furore. Ogni possibile violazione umana è stata compiuta. Perseguitati e reduci da orrori indicibili, in 630 mila hanno raggiunto il sud del Bangladesh. Tra questi profughi 378 mila sono bambini. E’ emergenza umanitaria.
Il primo dicembre scorso a Dakka, capitale del Bangladesh, c’è stato l’incontro, intriso di reciproca commozione, tra papa Francesco e sedici rohingya. Il Pontefice, che in passato aveva dovuto usare giri di parole per non urtare il governo birmano nominando questa minoranza musulmana, ha potuto finalmente pronunciare, restituendogli così almeno dignità storica, il nome “rohingya”. L’appello di Bergoglio è stato un invito accorato: «Non chiudiamo il cuore, non guardiamo da un’altra parte, non neghiamo a questo popolo diritti legittimi». «Chiedo perdono», ha aggiunto il Santo Padre, «per chi vi ha fatto male e per l’indifferenza del mondo». In lacrime Mohamed, uno degli uomini rohingya presenti all’incontro, ha 38 anni ed è padre di cinque figli: «Mai nessuno», ha detto, «aveva chiesto scusa per quanto ci è stato fatto». Un altro, intervistato dal Tg1, con forza dichiara: «Non ci vogliono perché siamo musulmani. Ho perso la mia casa, il mio terreno e il mio bestiame. So che ci sono troppi interessi su quei territori ma io tornerò: il mio Paese è il Myanmar»
Anche Save the Children si unisce alle parole del Papa affinché la comunità internazionale non resti inerte e propone, a sua volta, una strategia basata su sei punti per porre fine alla crisi umanitaria in corso:
Save the Children ha raccolto le prove degli orrori commessi: i racconti dei sopravvissuti e documenti di altra natura testimoniano purtroppo che le atrocità patite dalla comunità rohingya rientrano nei crimini contro l’umanità e nel tentativo di pulizia etnica. «I militari sono venuti nel nostro villaggio, hanno iniziato a sparare alle persone colpendo mia madre a un’anca. Poi hanno chiesto a tutte le adolescenti di stare in piedi e ci hanno domandato dove fossero i nostri genitori», racconta a Save the Children una giovane di 16 anni. «Ho detto loro che mio padre era morto da 15 anni. Mi hanno colpito in faccia con un’arma da fuoco, mi hanno dato un calcio nel petto e mi hanno pestato braccia e gambe. Sono stata stuprata da tre soldati per due ore. A un certo punto sono svenuta. Mi hanno rotto una costola quando mi hanno colpita, è stato molto doloroso e respiravo a fatica. Ho ancora difficoltà a respirare, ma non sono stata da un dottore, perché mi vergogno troppo».
Stiamo assistendo al più rapido spostamento di un popolo dopo il genocidio del Ruanda, nel 1994. I leader dell’UE devono intervenire, come chiedono le organizzazioni umanitarie. Non c’è davvero tempo da perdere.