Non tutte le missioni militari internazionali sono, per fortuna, fatte di offensive belliche e strategie che hanno a che fare con l’uso delle armi. Se le Nazioni Unite, nel 2000, con la Risoluzione “Donne, pace e sicurezza”, avevano spronato i peacekeeping a mostrare particolare attenzione nei confronti delle donne nei Paesi in guerra, oggi ai militari si chiede uno sforzo ancora maggiore. È a questo scopo che è nata la figura professionale del Gender Advisor, un consulente delle Pari opportunità che si occupa di promuovere progetti di scolarizzazione, orientamento lavorativo, protezione e informazione nei confronti delle donne, in quanto soggetti svantaggiati in ogni guerra e a maggior ragione in alcune aree del mondo come ad esempio in Afghanistan e in Libano dove l’uguaglianza di genere è ancora un miraggio.
Si tratta di un’azione caldeggiata dall’Onu e dalla Nato e a cui prendono parte i militari provenienti da Paesi democratici, in primo luogo la Svezia seguita dall’Italia. Non a caso, nella convinzione di quanto la figura del Gender Advisor sia necessaria, a Roma è in fase di svolgimento presso il Centro Alti Studi della Difesa il terzo corso professionale per consulenti.
Finora sono stati formati circa 100 ufficiali che, in senso pratico, hanno contribuito a far sì che le bambine afghane di Herat, per esempio, frequentassero le scuole o che delle donne, nel Libano meridionale, intraprendessero piccole attività commerciali. Oppure che altre ancora si occupassero delle forniture di cibo e dell’organizzazione delle mense per i militari. Azioni concrete e di interessante valore sociale. La sinergia tra Nato e Nazioni Unite è nata con uno scopo preciso: dare voce alla componente femminile delle società disgiunte dai conflitti perché il riscatto sociale delle donne possa essere una vera e propria strategia nel disegno di una pace futura.
Non si tratta di qualcosa di così semplice, a ben vedere. Se pensiamo al ruolo nel quale la donna viene confinata in posti come l’Afghanistan e il Libano, dove domina l’Islam, è chiaro come interventi normali per la nostra società occidentale risulterebbero invece aggressivi per loro, col risultato di non produrre alcun beneficio. Per cui occorrono tatto e diplomazia, uniti a una buona preparazione. Servono inoltre reti di relazioni sui territori che permettano di muoversi con cautela nel tessuto sociale, attraverso l’intervento di mediatori, capiclan, associazioni umanitarie.