Con il suo ultimo libro “Il giudice delle donne” (Frassinelli, 2016) Maria Rosa Cutrufelli ci restituisce un pezzo di storia del nostro Paese che il tempo rischiava di sottrarci per sempre. Invece, proprio nel 70° anniversario del diritto di voto ottenuto dalle donne, la scrittrice confeziona un romanzo che narra della vicenda poco conosciuta di come, nel 1906, dieci maestre della provincia di Ancona chiesero e ottennero l’iscrizione alle liste elettorali per il voto amministrativo.
Agli albori del ‘900 erano esclusi dalle urne non solo le donne ma anche gli analfabeti e gli uomini di basso censo. Tuttavia, si trattava di una norma giuridica basata sull’ambiguità e in qualche modo contraddittoria perché poneva alla stregua di chi non sapeva leggere e scrivere – oltre ad avere un reddito basso – le insegnanti, che invece erano regolarmente remunerate e partecipavano attivamente all’alfabetizzazione dei bambini. Da qui il coraggio di queste donne che, sospinte dalla battaglia mediatica che Maria Montessori stava conducendo in quegli anni, riuscirono, tra corsi e ricorsi, ad arrivare alla corte d’appello di Ancona, presieduta da Lodovico Mortara.
È lui il giudice delle donne, appellativo che oggi apprezziamo in tutta la sua bellezza ma che all’epoca sottintendeva un’accezione negativa, esattamente come “maestrina”, diminutivo poco apprezzato dalle educatrici. Lodovico Mortara, in ogni caso, si trovò nella situazione di dover emettere un giudizio, lo fece e scatenò reazioni di ogni genere; dal piccolo paese fino ad Ancona, varcando i confini regionali, così da infervorare anche i politici, uomini e donne di tutti i ceti, i giornali e l’opinione pubblica dell’epoca.
Tutta questa affascinante vicenda viene raccontata attraverso tre voci narranti alternate in perfetto equilibrio e da tre punti di vista diversi: c’è Alessandra, diciannovenne dal carattere volitivo e indipendente alle prese con la sua prima supplenza a Montemarciano dove incontra la collega Luigia, personaggio chiave del romanzo; c’è Teresa, una ragazzina che ha perso la voce dopo un terribile shock quand’era bambina, nipote dell’affittuario presso cui abita Alessandra; infine, Adelmo, giornalista dell’«Ordine» (quotidiano delle Marche) e fratello di un’altra maestra amica di Alessandra.
La narrazione scorre rapida e disinvolta, complice lo stile della scrittrice che conferisce ai personaggi tratti distintivi, caratteristiche talvolta ironiche, vicende personali calate in un contesto storico definito. Così si configura davanti agli occhi di chi legge uno spaccato di veridicità che non si consuma nella semplice cronaca dei fatti perché ciascuno dei tre protagonisti vive il presente e lo racconta filtrato dalla propria emotività.
La descrizione della vita a Montemarciano, quel piccolo paese in cui avvenne un fatto unico nella storia italiana, somiglia a quella di mille altri borghi della nostra Penisola nei primi del ‘900. Somiglia nei costumi, nelle abitudini, nel pensiero comune di una società ancora involuta che guardava con sospetto ai cambiamenti sociali che si stavano verificando negli Stati Uniti e in Inghilterra dove le donne, in quegli stessi anni, si avviavano in maniera più decisa verso l’emancipazione. E tuttavia è storia di una certa rilevanza anche la nostra, quella italiana, perché di fatto le prime a ottenere il titolo di “elettrici” furono delle nostre compatriote, dieci maestre dell’anconetano con il sogno della democrazia. Guai a dimenticare il passato, che siano pagine gloriose o sconfitte, ma guai soprattutto a dimenticare di chiederla, la democrazia. In particolare le donne perché, proprio come dice Alessandra nel romanzo, «è talmente precaria la nostra libertà. Basta un soffio e se ne perdono le tracce».