La maggior parte di noi probabilmente ignora il lato oscuro che si nasconde dietro il regolare utilizzo che facciamo di smarphone, tablet e vari dispositivi diventati ormai elementi caratteristici delle nostre vite. Un lato oscuro che Amnesty International ha deciso di portare alla luce, attraverso il suo rapporto “Time to Recharge” in cui viene analizzato quanto le maggiori compagnie che lavorano nel settore della tecnologia e della mobilità – Samsung, Dell, Apple, Microsoft, Bmw, Renault, Tesla per citarne alcune – rispettino i parametri della sostenibilità e, soprattutto, dei diritti umani.
In modo particolare, è lo sfruttamento del lavoro minorile a destare particolare preoccupazione. Per la realizzazione dei prodotti e dei dispositivi che normalmente utilizziamo, infatti, è necessario un impiego massiccio di forza lavoro nelle miniere per l’estrazione del cobalto, essenziale per fabbricazione di batterie elettriche. Il problema, come sottolinea Amnesty, è che il tutto avviene nei Paesi socialmente, economicamente e politicamente più instabili, come ad esempio è il caso della Repubblica Democratica del Congo da dove proviene più della metà della produzione mondiale di cobalto.
Qui migliaia di bambini lavorano ogni giorno in condizioni disumane per l’estrazione del prezioso minerale e la nota organizzazione ha stimato che nel 20% dei casi esso viene estratto a mano.
Già nel 2016 Amnesty International aveva condotto uno studio sulle principali aziende, riscontrando sistematiche violazioni in termini di diritti umani e di sostenibilità. Ora, a distanza di quasi due anni, lo studio è stato aggiornato e sono state prese in considerazione 29 aziende. Il risultato è sconfortante e lo ha spiegato in tono giustamente indignato Seema Joshi, direttrice del programma Economia e diritti umani di Amnesty International: «A quasi due anni di distanza alcune delle più ricche e potenti aziende del mondo stanno ancora accampando scuse perché non hanno indagato sulla loro catena di fornitori e persino quelle che lo hanno fatto non rendono noti i rischi per i diritti umani e le violazioni che hanno riscontrato. Se le aziende non sanno da dove viene il cobalto, figuriamoci i loro clienti».
I criteri di valutazione di cui si è avvalsa l’organizzazione umanitaria sono stati 5 e tra questi c’era l’obbligo di effettuare controlli proprio sulla catena di approvvigionamento, insieme al non meno aspetto importante legato alla trasparenza circa i rischi di ricaduta negativa sui diritti umani.
Il risultato è che non una delle 29 aziende prese in esame ha dato il via ad azioni soddisfacenti per adeguarsi agli standard. La meno peggio si è rivelata Apple per un maggior impegno profuso nei controlli sull’origine e la lavorazione dei materiali indispensabili alla fabbricazione dei prodotti; di fatto è stata la prima azienda a mostrare un minimo di trasparenza pubblicando la lista dei propri fornitori di cobalto.
Dell e Hp, altri due importanti colossi, sembra abbiano cominciato ad indagare su chi siano i propri fornitori, mentre altre grandissime società non hanno evidenziato alcun miglioramento. Tra tutte è la Microsoft, secondo il rapporto di Amnesty International, a vantare la poco gratificante caratteristica di continuare imperterrita a comportarsi in maniera tutt’altro che trasparente.
Altro lato inquietante del rapporto, riguarda i produttori di veicoli elettrici che risultano essere, se possibile, ancora meno limpidi. Pessime le valutazioni su Renault e Daimler, un po’ meglio la Bmw che però non ha ancora reso noto chi siano i propri fornitori.
Paradossale come le aziende impegnate nello sviluppo della cosiddetta tecnologia verde diano, di fatto, così poca rilevanza al rispetto dei diritti umani e alla trasparenza.