Così si dice: il secondo romanzo è sempre il più difficile. Vero o meno, da Arundhati Roy nessuno si aspettava ormai più questo libro dal titolo intrigante “Il ministero della suprema felicità” (Guanda, 2017), non dopo vent’anni di assoluto silenzio letterario – ad eccezione di qualche saggio – da quel capolavoro che fu “Il dio delle piccole cose”, vincitore del prestigioso Booker Prize e praticamente tradotto in ogni lingua.
E invece ecco la mossa che non ti aspetti, il ritorno dello scrittore che sente l’urgenza di comunicare qualcosa, getta la sua pietra piatta dalla riva del mare e osserva con curiosità quanti rimbalzi sia in grado di produrre quell’unico gesto, capolavoro di misura, arte e precisione. Il sasso di Arundhati Roy, lanciato dalle sue acque è arrivato lontano, con la sua eco che si è riverberata ovunque.
Meglio “Il dio delle piccole cose” o “Il ministero della suprema felicità”? Difficile e insensato rispondere, anche perché sostanzialmente è cattiva educazione chiedere se si voglia più bene alla mamma o al papà. I bambini si sentono spesso molto offesi a questa domanda e valutano gli adulti come perfetti imbecilli. In ogni caso, esattamente come madre e padre sono diversi tra loro, così lo sono i due romanzi.
Il ministero della suprema felicità è però un capolavoro letterario, punto. Colpisce immediatamente la dedica, nient’affatto casuale. Il romanzo è per gli inconsolabili. Al di là del significato profondo del termine, ho provato a pronunciare questa parola nelle lingue che conosco e in quelle che non conosco e in tutte suona come una poesia, si manifesta con un suono dolce che il palato trattiene per un po’ come per i cibi molto gustosi, e poi libera nell’aria trasportata da un alito di suprema bellezza.
Gli inconsolabili, per Arundhati Roy, sono quell’umanità spezzata, relegata ai margini, trafitta dalla brutalità del mondo che non scrive la storia ma fa la storia. Se è vero che ogni persona è quantomeno un microcosmo, la difficoltà maggiore da parte di chi scrive è tenere insieme questi mondi, avere la forza di contenerli tutti attraverso fili conduttori multipli. “Il ministero della suprema felicità” è infatti un romanzo corale in cui i fatti non si svolgono seguendo la cronologia degli eventi ma – come Proust e il ‘900 hanno introdotto in letteratura – quella interiore dei protagonisti, che si muovono in uno scenario dominato da suggestioni, ricordi, odori, sensazioni.
Così impariamo a conoscere subito Anjum, donna intrappolata in un corpo maschile di hijra (appellativo indiano antichissimo per riferirsi agli ermafroditi e ai transessuali) che abbandona il Khawabgah, il bordello in cui vive un’intera comunità, altrimenti noto anche come Casa della felicità. Ci pieghiamo di fronte alla forza di un amore tenace capace di sorridere di fronte alla polvere del tempo, quello tra la splendida Tilottama e il kashmiro Musa, diventato un guerrigliero per l’inevitabilità degli eventi.
Incappiamo in Saddam, personaggio enigmatico che a sentirne il nome verrebbe voglia di imprecare, ma certa letteratura chiede pazienza per scoprire il come e il perché che in definitiva se non assolvono fanno comprendere. E poi, ancora, una bambina, Zainab, abbandonata «sul marciapiedi di cemento, in una culla di rifiuti», personaggio chiave destinato a tenere unita l’intera sorte dei personaggi.
Ma “il ministero della suprema felicità” è di più: altri nomi, altra umanità, variegata, colorata, odiosa, bellissima. Impossibile tracciare una trama precisa del romanzo, l’autrice non lo vuole e non lo permette, ha le mani della dea Kali con le quali muove abilmente i fili della narrazione e al massimo si può dunque fornire una chiave d’accesso al romanzo che apre porte sulle ambientazioni, gli scenari storici e politici, i temi centrali della stesura.
Ecco, l’India è luogo e personaggio al tempo stesso: l’esausta Delhi tra l’opulenza di certi quartieri e la miseria sui marciapiedi, quel prospero Kashmir che invocava Azadi, libertà, e per questo ha pagato il prezzo più alto: esecuzioni di massa, guerre di conquista, miseria, per ovvie ragioni economiche. Arundhati Roy lo aveva, prima dell’uscita del romanzo, più volte ribadito: «Il Kashmir non è India», per questo ha rischiato l’arresto, ha dovuto predisporre misure di sicurezza nella sua abitazione, temere per la propria incolumità. Con il ministero della suprema felicità l’occasione di tornare a parlare del Kashmir era troppo ghiotta, al potere della parola bisognerà pur arrendersi qualche volta, con buona pace per i violenti e coloro che vorrebbero dedicarsi all’opinabilissima arte del cucito delle bocche.
Ma il Paese asiatico è anche il luogo dei bordelli, i Khawabagh come abbiamo detto, e poi ancora di regioni note e meno note di una territorio immenso. Un romanzo mondo, dunque, ma anche un trattato sull’India del terzo millennio. Una megalopoli di personaggi, una comunità di marginali, forse inconsolabili ma fino a un certo punto, finché insomma valori universali come la solidarietà, l’amore inteso come il prendersi cura di qualcuno, la compassione nutrita da una pazienza di perla, ricuciono i fili di vite interrotte nel luogo più impensabile del mondo, un cimitero che via via si trasforma in pensione con tanto di nome, la pensione Jannat. Doveroso specificare che non esiste nulla di macabro in tal senso, il cimitero nel romanzo ha una connotazione fisica ma anche simbolica, è il luogo dell’eterno riposo dei morti e il luogo di libertà dei vivi che ospita, a varie riprese, tutti i personaggi di cui abbiamo parlato e gli altri di cui è stato impossibile parlare. L’autrice stessa ha scelto la copertina del romanzo, il consiglio è di osservarla bene. Il cimitero diventa insieme il luogo e “il ministero della suprema felicità”, dove «i malconci angeli che proteggono i malconci defunti affidati alla loro custodia, tenevano socchiuse (illegalmente, solo uno spiraglio) le porte tra i due mondi, in modo che le anime dei presenti e dei deceduti potessero mescolarsi come ospiti fissi alla stessa festa. Questo rendeva la vita meno definitiva. E la morte meno definitiva. In qualche misura, tutto diventava un po’ più facile da sopportare».
Pagine e pagine di amore e protesta, di delicatezza e denuncia sociale, di bellezza pura e schieramento contro un mondo politico nei confronti del quale la Roy non ha alcun problema a lasciare intendere nomi e cognomi – ha già rischiato, rischia ancora per questo – facendo notare l’assurdo degli estremismi, scagliandosi contro il fondamentalismo induista come contro quello islamico, contro l’assurdo sistema delle caste. C’è tutto, forse troppo, in questo romanzo vibrante, poetico, lucidamente arrabbiato, in cui la narrativa ha il suo posto ma la letteratura si impone. Come leggerlo? Come districarsi in questo labirinto infinito? Forse attraverso un meraviglioso passaggio poetico contenuto nel libro, che dice:
«Come raccontare una storia frammentata?
Diventando a poco a poco ogni persona.
No. Diventando a poco a poco ogni cosa».