di Francesco Lo Piccolo
Da ragazzo ho abitato a Gorra, piccolo paese di collina a pochi chilometri da Finale Ligure. Avevo dodici anni o poco più e di quel periodo ho ancora bellissimi ricordi: i giochi con i miei fratelli, le corse nel bosco, le partite a pallone in un campetto ricavato in una vecchia cava abbandonata. Non lontano dalla nostra casa c’era un frantoio. Ricordo che il profumo dell’olio si sentiva a grandi distanze. Un profumo intenso, un piacere che è rimasto nella mia testa assieme ad altri odori della mia infanzia: quello di una piccola segheria, del vino che andava a male e faceva “i fiori”, degli alberi da frutta, dei peschi soprattutto. Prima nel frantoio e poi nella segheria ho imparato il senso del lavoro: mi ci mandava mio padre durante l’estate, solo per alcune ore, quel tanto che bastava perché imparassi che cosa vuol dire la fatica e l’impegno. Perché poi, da grande, fossi in grado di costruirmi (e vedere per me) un buon futuro.
Di lavoro, del lavoro che non c’è, si parla molti in questi anni. Se ne è parlato anche ieri, festa del Primo Maggio. L’ha fatto il presidente della Repubblica Mattarella soffermandosi sul problema del precariato e sulla disoccupazione giovanile . “Un Paese che esclude i giovani o li inserisce nel mondo del lavoro in modo precario – ha detto – è un paese che si condanna da solo”. Parole sacrosante, peccato che non ha aggiunto che il precariato è anche frutto di scelte passate e presenti a tutto vantaggio della flessibilità, del profitto dell’impresa e non del lavoratore. Peccato che non ha aggiunto che alla base del precariato c’è, ad esempio, l’uso sempre più esteso dei buoni lavoro, i cosiddetti voucher, che sono “lavoro senza contratto”. Dovevano essere il toccasana per rilanciare il lavoro (io non l’ho mai creduto) in realtà si sono rivelati un vero e proprio sfruttamento. E i dati Istat confermano: la disoccupazione giovanile è al 50 per cento, una persona su quattro è a rischio povertà o esclusione sociale, con un tasso superiore di quasi quattro punti percentuali a quello medio dell’Unione europea, pari al 24,4% nel 2014. Stiamo peggio solo di Romania (40,2%), Bulgaria (40,1%), Grecia (36,0%), Lettonia (32,7%) e Ungheria (31,1%) e su livelli «molto simili» a quelli di Spagna (29,2%), Croazia e Portogallo. Un altro dato della Coldiretti: “Oltre 6 milioni gli italiani vanno ben oltre il rischio di povertà e non hanno denaro a sufficienza neanche per alimentarsi adeguatamente”.
Tempo fa, un amico di dieci anni più vecchio di me mi ha ricordato il dopoguerra. Anche allora c’era povertà e fame e poco lavoro, ma a differenza di oggi, allora c’erano prospettive. E c’era un’Italia da ricostruire – letteralmente perché le case erano ridotte a macerie – e soprattutto c’era la voglia di fare, di tirarsi su le maniche, di sacrificarsi. Anche di emigrare. E lo testimoniano quei milioni di italiani che si sono sparsi nel mondo, come nel mondo oggi vanno uomini e donne dell’Africa, del medio Oriente e dell’Est Europa. Una voglia di fare che è andata avanti per anni. Una prospettiva che oggi forse non si vede più. Quasi che l’unica prospettiva di cambiamento sia legata solo alla fortuna che si compra dal tabaccaio con i tagliandini da grattare o scommettendo con Better. Pura illusione ovviamente.
Davvero mi auguro che questa volta riescano i referendum della Cgil contro il Jobs act e perché siano aboliti i voucher. E certamente aderisco alla proposta di legge di iniziativa popolare denominata “Carta dei Diritti universale del lavoro”, proposta di legge per riaffermare i diritti universali del lavoro a prescindere dalla tipologia contrattuale, per ridiscutere il sistema pensionistico, e annullare le diseguaglianze sulla maternità, sul diritto allo studio, sui licenziamenti, sul sistema degli appalti. Insomma per ridare speranza. Speranza fondata sull’impegno, quell’impegno che mi aveva insegnato mio padre quando mi mandava al frantoio. Perché poi, da grande, fossi in grado di costruirmi (e vedere per me) un buon futuro.