La felice realtà dell’imprenditoria femminile sembra non conoscere crisi, appare anzi in continua evoluzione. È quanto emerso dal rapporto “ImpreseInGenere”, studio condotto da Unioncamere in collaborazione con il Consiglio dei Ministri-Dipartimento Pari Opportunità.
Dal 2010 al 2015 su 53.000 imprese considerate come riferimento, ben 35.000 – il 65% – risultano guidate da donne. Alla base di un tale successo giocano un ruolo fondamentale le competenze digitali, la giovane età e la propensione al multiculturalismo, caratteristiche che ne rendono costante la crescita e aprono la strada a una prospettiva migliore di quella attuale che vede il panorama imprenditoriale coperto per il 21% da donne.
Resta tuttavia fondamentale rimuovere tutti quegli ostacoli, determinati dalla scarsa elasticità del mondo del lavoro in Italia, che costringono di fatto le donne a rimanere fuori dal mercato occupazionale. Non per niente l’Italia è tra i Paesi dell’area comunitaria con il maggior tasso di disoccupazione femminile (13,8% nel 2014) e anche quello con la percentuale maggiore di inattività (45,6%), dieci punti al di sopra della media Ue (33,5%).
Le ragioni di una distanza così ampia vanno ricercate nell’eterno binomio famiglia-lavoro, cui si aggiunge la mancanza di misure di flessibilità invece diffuse negli altri Paesi. Tuttavia, qualche piccolo cambiamento comincia a prendere piede, come ad esempio la messa in atto di progetti di smart working (lavoro da remoto per alcuni giorni della settimana) e in generale la sempre maggiore richiesta d’informazioni da parte delle aziende sui piani e gli strumenti di welfare.
Sostanzialmente occorre che le imprese si rendano conto dell’utilità di forme di lavoro più agili che non compromettono né la produttività né l’efficienza del lavoro, che siano in grado di recepire come la qualità sia spesso da preferirsi alla quantità delle ore svolte e che la validità della prestazione in sé non sia necessariamente legata al luogo in cui si svolge l’attività.