Il 15 novembre 2014 la Gazzetta Ufficiale della UE ha pubblicato la Direttiva 2014/95/UE del Parlamento europeo e del Consiglio – del 22 ottobre 2014 – in materia di informazioni di carattere non finanziario e di informazioni sulla diversità da parte di talune imprese e di taluni gruppi di grandi dimensioni. In coerenza con gli orientamenti espressi in materia di responsabilità sociale delle imprese nella Comunicazione n. 681/2011 l’Unione vincola “le imprese di grandi dimensioni che costituiscono enti di interesse pubblico” a includere “nella relazione sulla gestione una dichiarazione di carattere non finanziario contenente almeno informazioni ambientali, sociali, attinenti al personale, al rispetto dei diritti umani, alla lotta contro la corruzione attiva e passiva in misura necessaria alla comprensione dell’andamento dell’impresa, dei suoi risultati, della sua situazione e dell’impatto della sua attività”. L’intervento entrerà in vigore “a decorrere dall’esercizio avente inizio il primo gennaio 2017 o durante l’anno 2017”.
Nell’approfondimento del 25 settembre 2015 abbiamo proposto la posizione della Fondazione Nazionale dei Commercialisti dal titolo Rendicontazione non finanziaria e asseverazione dei report di Corporate Responsibility nelle società quotate. Dinamiche internazionali e confronto con la situazione italiana su diffusione, tipologie, standard adottati e provider dell’attività di asseverazione.
Oggi intendiamo sottoporre all’attenzione dei lettori di Felicità Pubblica l’autorevole posizione del Gruppo di Studio sul Bilancio Sociale in merito al recepimento italiano della Direttiva europea.
Il GBS ribadisce con forza la propria adesione ai principi contenuti nella Direttiva: “Se da un lato, infatti, la trasparenza informativa si riflette su un miglioramento della “fiducia” nei confronti delle imprese essa, dall’altro, favorisce il processo di pianificazione, gestione e monitoraggio delle prestazioni di carattere non-finanziario e relativo impatto sulla società”.
Tuttavia non nasconde le difficoltà che si incontreranno nell’adattamento dei principi comunitari alle caratteristiche del sistema produttivo italiano. Per questo il GBS ha sviluppato una serie di riflessioni che completano il processo già avviato nel 2015 per suggerire al legislatore nazionale alcuni elementi chiave da affrontare nel processo di recepimento della direttiva comunitaria. Si intende così evitare che le imprese si imbattano nell’ennesimo appesantimento burocratico, quanto piuttosto che riescano a migliorare il loro posizionamento competitivo in Europa.
Di seguito un estratto del documento licenziato il 13 aprile 2016; il testo integrale alla pagina web.
AMBITO DI RIFERIMENTO
Agli effetti del recepimento della Direttiva si richiede, pertanto, al MEF di fornire una chiara definizione di “imprese di grandi dimensioni che costituiscono enti di interesse pubblico” (Public Interest Entity – PIEs), eventualmente integrando l’indicazione del parametro dei 500 dipendenti, dell’essere quotata, o impresa bancaria e finanziaria (nella “Survey FEE-Fédération des Experts comptable Européens- Definition of PIEs in Europe” dell’ottobre 2014, per l’Italia venivano anche indicati pension funds, investment companies, asset management companies, per un totale complessivo di 1.430, 260 quotate).
Riguardo al parametro dimensionale indicato (numero di dipendenti occupati in media durante l’esercizio pari a 500) – che comunque riguarderebbe un totale stimato di oltre 1000 grandi imprese – invece di allargare il perimetro scendendo verso il livello delle PMI, si potrebbe privilegiare l’aspetto del “forte impatto” potenziale su società e ambiente, segnalando alcune categorie di aziende – oltre a banche e assicurazioni – come grande distribuzione organizzata e public utilities, e aziende pubbliche che si occupano di beni comuni (acqua, rifiuti, ecc.) o di servizi alla persona come la salute. Nel caso di un consistente allargamento del perimetro – anche in considerazione della esigenza di un problematico forte salto nella richiesta delle “competenze specifiche” per il non-financial reporting – potrebbe essere consigliabile un capacity building graduale prevedendo come in Danimarca un phased approach (50 large PIEs a partire dal gennaio 2016, le altre 1000 nel 2018), indicando chiaramente la direzione di un progressivo allargamento, ma prevedendo un periodo di transizione fino al 2018, anche al fine di lasciare alle imprese sotto i 500 dipendenti il tempo di acquisire le competenze specifiche e di attivare le procedure necessarie.
INFORMAZIONI RICHIESTE
Si sottolinea l’esigenza di andare oltre la semplice indicazione delle materie/ambiti, specificando (come indicato al numero 7 di “considerando”) che la Dichiarazione di carattere non finanziario dovrebbe almeno contenere, riguardo agli “aspetti ambientali”, informazioni dettagliate sugli impatti che l’attività svolta determina sull’ambiente fisico-naturale, sulla salute e la sicurezza, sulle energie rinnovabili, le emissioni, le risorse idriche e l’inquinamento atmosferico. Con riferimento agli “aspetti sociali e attinenti al personale”, informazioni dettagliate sulle azioni per garantire l’uguaglianza di genere, sulla implementazione di convenzioni OIL, sulle condizioni lavorative, il dialogo sociale, i diritti sindacali e a essere informati e consultati, la salute e la sicurezza, il dialogo con comunità locali e le azioni per il loro sviluppo. Riguardo ai “diritti umani e corruzione” una chiara indicazione delle misure adottate per prevenire eventuali violazioni e atteggiamenti discriminatori, degli strumenti messi in atto per la lotta contro la corruzione attiva e passiva. Si raccomanda in particolare per i diritti umani di prevedere il ricorso a procedure di “due diligence” sulla catena di fornitura e subappalto, seguendo le indicazioni dei “UN Guiding Principles on B&HR”, Pillar II Responsibility to Respect, Principles 17-21.
Si ritiene utile, inoltre, chiarire che – mentre per ciascun aspetto ambientale/sociale le informazioni si riferiscono a politiche/due diligence, principali rischi, risultati, indicatori – salvo il caso di business units fortemente diversificate, la “breve descrizione del modello aziendale dell’impresa” dovrebbe indicare, oltre ai prodotti/servizi, anche possibili principi e impegni (shared value, sustainable development goals, circular economy, sharing economy, core competences, open innovation, ecc.)
POSIZIONAMENTO DELLA DICHIARAZIONE DI CARATTERE NON FINANZIARIO
Si ritiene necessario chiarire le diverse opzioni di posizionamento della Dichiarazione di carattere non finanziario tra cui scegliere:
RESPONSABILITÀ COLLETTIVA DEI MEMBRI DEGLI ORGANI DI AMMINISTRAZIONE, GESTIONE, INDIRIZZO
Si ritiene necessario che venga sottolineata la responsabilità collettiva dei membri degli organi di amministrazione, di gestione e di indirizzo sull’osservanza degli obblighi della Direttiva per ciò che attiene la redazione e la pubblicazione dei Bilanci, della Relazione sulla Gestione e della Dichiarazione sul Governo. E che tale responsabilità permane anche nel caso in cui si optasse per una collocazione diversa dalla Relazione sulla Gestione, come “relazione distinta” pubblicata unitamente alla Relazione sulla Gestione, o sul “sito web”.
ASSEVERAZIONE
Particolare considerazione merita il ruolo che deve assumere la verifica indipendente della rendicontazione non finanziaria. È del tutto evidente che ogni valutazione sul contenuto e sul processo della rendicontazione non può prescindere da come si intendano asseverare le informazioni ritenute più sensibili o centrali. Tutto ciò vive in stretta relazione anche con la responsabilità collettiva dei membri degli organi di amministrazione, gestione e sorveglianza per le funzioni relative a politiche, rischi e risultati.
Oltre a prevedere a carico dei revisori il controllo dell’ “avvenuta presentazione della dichiarazione di carattere non finanziario” o della relazione distinta (comma 5), si ritiene opportuno raccomandare come buona pratica una verifica delle informazioni contenute nella dichiarazione non finanziaria da parte di un fornitore indipendente di servizi di verifica (comma 6) per aumentare la trasparenza e l’accountability delle organizzazioni verso tutti gli stakeholders.
Il comma 6 del nuovo art. 19 bis della Direttiva 2013/34/UE, introdotto ad opera della Direttiva in parola, dispone infatti che “Gli Stati membri possono richiedere che le informazioni figuranti nella dichiarazione di carattere non finanziario di cui al paragrafo 1 o nella relazione distinta di cui al paragrafo 4 siano verificate da un fornitore indipendente di servizi di verifica”. L’attività prevista dalla norma appena ricordata sottende, evidentemente, una verifica delle non-financial informations più approfondita rispetto al controllo di “avvenuta presentazione della dichiarazione di carattere non finanziario” previsto dal par. 5 dell’art. 19 bis.
Trattandosi di informazioni di natura non finanziaria e di una attività di assurance diversa dalla revisione legale, lo standard di riferimento per lo svolgimento di detta verifica parrebbe potersi individuare, come sostenuto anche dalla FEE , nell’International Standard on Assurance Engagement 3000 (“Assurance Engagements other than Audits or Review of Historical Financial Information”) (ISAE 3000), emesso dall’International Auditing and Assurance Standard Board (IAASB).
L’ISAE 3000, in particolare, fornisce al professionista indicazioni per la predisposizione dell’incarico e per la sua accettazione, nonché chiarimenti sulle procedure da svolgere per l’espletamento dell’attività di verifica e per l’ottenimento di adeguate evidenze probative, sui requisiti etici richiesti al professionista, sugli standard qualitativi di controllo, sull’uso del lavoro di esperti e sulla struttura della relazione di assurance.
Fermo restando quanto sopra, pare opportuno sottolineare che la Direttiva non chiarisce quali soggetti possano rientrare nella definizione di “fornitore indipendente di servizi di verifica” cui può essere demandata la verifica contemplata nel paragrafo 6 dell’art. 19 bis. Nel caso in cui il legislatore italiano decidesse di recepire a livello nazionale la disposizione in esame sarebbe dunque opportuno prevedere alcuni chiarimenti al riguardo.
GBS condivide l’impostazione della FEE che individua nell’accountancy profession la categoria dei soggetti abilitati a svolgere l’attività indicata nel paragrafo 6 dell’art. 19 bis. In effetti, “the accountancy profession, applying the IAASB framework (or national equivalent), is equipped to respond to assurance needs over NFI”. Potrebbero quindi essere accountant che abbiano caratteristiche di indipendenza e che siano in grado, anche mediante il coinvolgimento di esperti, di svolgere l’incarico con una adeguata preparazione tecnica sulle specifiche tematiche trattate dalla Direttiva. A tale riguardo, l’ISAE 3000 prevede che il professionista possa accettare l’incarico nel caso in cui soddisfi “relevant ethical requirements” ed abbia “appropriate competence and capabilities” (par. 22).
La scelta dell’impresa, dunque, potrà riguardare sia il soggetto incaricato dell’audit, sia altri soggetti in possesso delle caratteristiche sopra richiamate. In ogni caso, nell’ipotesi in cui il revisore legale dei conti (o ad un soggetto appartenente alla sua rete) sia nominato quale “fornitore indipendente di servizi di verifica”, occorre considerare che il controllo previsto dal paragrafo 6 dell’art. 19 bis rappresenta un’attività diversa dall’audit del bilancio.
POLITICHE IN MATERIA DI DIVERSITÀ NELLA COMPOSIZIONE DEI CONSIGLI
È necessario sottolineare l’importanza di fornire informazioni sull’impegno dell’azienda, sulle politiche adottate, sulle azioni attuate e sui risultati ottenuti per rispettare e valorizzare la diversità delle persone e per prevenire ed evitare forme di discriminazione nella composizione degli organi di amministrazione, gestione e controllo dall’impresa, legate a condizioni quali, ad esempio, l’età, il sesso, la provenienza geografica, la religione professata, la lingua parlata o il percorso formativo e professionale delle persone, ribadendo, peraltro, l’obbligo di fornire una spiegazione esaustiva del perché di una eventuale scelta aziendale di non applicare alcuna politica in materia di diversità.