Ognuno costruisce il suo sistema di piccoli rancori irrazionali, di cosmi personali scordando che poi infine tutti avremo due metri di terreno.
Quanta verità in questa frase di una delle canzoni a mio avviso più belle di Francesco Guccini.
C’è un sentimento peggiore del rancore? Probabilmente no. Il rancore, infatti, ci logora dentro senza risolvere i nostri problemi, ci rende più duri, astiosi, sospettosi e irascibili rendendo la nostra vita più triste, spesso senza alcun motivo.
Eppure sembra proprio che nel nostro Paese le persone animate dal rancore siano più del previsto. A rilevalo è l’ultimo rapporto Censis che mette in luce come l’Italia sia un Paese ricco ma allo stesso tempo ingiusto e rancoroso. Se da un lato, infatti, i dati evidenziano una ripresa economica in quasi tutti gli indicatori analizzati, e un conseguente aumento della spesa per i consumi delle famiglie, che hanno ricominciato a spendere in ristorazione, cultura e tempo libero, viaggi e benessere, allo stesso tempo l’umore degli italiani non è affatto dei migliori.
In particolare, stando a quanto fotografato dal Censis, a creare rancore è il blocco della mobilità sociale e il grande divario che ancora resta netto tra le varie fasce di popolazione e le diverse regioni d’Italia. Vale la pena soffermarsi sui numeri: l’87,3% degli italiani appartenenti al ceto popolare pensa che sia difficile salire nella scala sociale, come l’83,5% del ceto medio e anche il 71,4% del ceto benestante. Pensano che al contrario sia facile scivolare in basso nella scala sociale il 71,5% del ceto popolare, il 65,4% del ceto medio, il 62,1% dei più abbienti.
La paura del declassamento è il nuovo fantasma sociale e in particolare ad avvertire questa preoccupazione sono i cosiddetti millennials, quindi coloro che dovrebbero guardare al futuro con più ottimismo: l’87,3% di loro, infatti, pensa che sia molto difficile l’ascesa sociale e il 69,3% che al contrario sia molto facile la caduta in basso.
A questo, si aggiunge un conseguente ma deleterio aumento delle distanze da chi è “diverso”: il 66,2% dei genitori italiani si dice contrario all’eventualità che la propria figlia sposi una persona di religione islamica, il 48,1% una più anziana di vent’anni, il 42,4% una dello stesso sesso, il 41,4% un immigrato, il 27,2% un asiatico, il 26,8% una persona che ha già figli, il 26% una con un livello di istruzione inferiore, il 25,6% una di origine africana, il 14,1% una con una condizione economica più bassa.
Sono tante, troppe, dunque, le persone che vivono dentro il proprio microcosmo senza ambizioni di miglioramento e di crescita. Questa frustrazione rende gli italiani più rancorosi e più soggetti a trovare dei veri e propri capri espiatori della propria infelicità. E non c’è nulla di più “facile” che mirare verso chi è tanto più in alto, o tanto più in basso di noi, per riversare tutto il nostro odio.
Ecco allora che l’antipolitica, e il conseguente populismo, prende sempre più piede. In questo caso, l’onda di sfiducia che ha investito la politica e le istituzioni non perdona nessuno: l’84% degli italiani non ha fiducia nei partiti politici, il 78% nel Governo, il 76% nel Parlamento, il 70% nelle istituzioni locali, Regioni e Comuni. Il 60% è insoddisfatto di come funziona la democrazia nel nostro Paese, il 64% è convinto che la voce del cittadino non conti nulla, il 75% giudica negativamente la fornitura dei servizi pubblici.
Ma a fare le spese di questo rancore diffuso e generalizzato sono anche coloro che, pur trovandosi in una condizione di svantaggio, finiscono ugualmente nel mirino. Parlo degli immigrati che troppo spesso vengono visti come delle minacce alla crescita degli italiani e sui quali si riversa un pericoloso odio che sfocia sempre più spesso nel razzismo più becero.
Ma ha senso tutto questo rancore?
Sicuramente no perché, come ricorda il cantautore di Pavana, “infine tutti avremo due metri di terreno” e il tempo perso a odiare gli altri finirà solo per avvelenare noi stessi.
Il direttore
Vignetta di certina: Freccia