Parlano milanese, romano, napoletano o siciliano. Frequentano le scuole dell’obbligo come tutti i loro coetanei. Sognano di fare il calciatore – magari nella Juventus – o la maestra di italiano o ancora il poliziotto per arrestare i cattivi. Amano la pizza e gli spaghetti, e non nominano il caffè solo perché sono troppo piccoli per apprezzarne il gusto. Se chiedi loro se siano italiani, la risposta appare banale: certo!
Eppure loro italiani in realtà non lo sono. E non perché siano arrivati nel nostro Paese da poco, al contrario hanno emesso il loro primo vagito proprio in una delle tante città dello Stivale. Ed è in Italia che stanno crescendo. Qui che stanno frequentando le scuole dell’obbligo. Qui che probabilmente frequenteranno l’università e lavoreranno. Qui che faranno crescere i loro figli come hanno fatto anni prima i loro genitori e qui che un domani moriranno e verranno sepolti. Ma il loro sangue? Quello “purtroppo” non è italiano, perché i loro genitori sono stranieri. E allora per tutti loro la cittadinanza non è un diritto riconosciuto, ma una conquista da raggiungere solo da grandi, forse. Di chi parliamo? Di migliaia di bambini, figli “illegittimi” di un’Italia che non li riconosce, perché da noi vige lo ius sanguinis, il diritto di sangue, e non lo ius soli, il diritto legato al territorio.
Questo significa che se almeno uno dei tuoi genitori non è italiano, tu dovrai aspettare di compiere 18 anni per poter chiedere di diventare anche per legge quello che già sei per nascita, ossia italiano.
Il tema, di cui si parla ormai da anni, è tornato in queste settimane di grande attualità perché la legge che contempla l’introduzione dello ius soli è approdata in Senato. In particolare il testo prevede uno ius soli temperato: i figli di migranti nati in Italia potranno diventare cittadini italiani se i genitori hanno il “permesso di soggiorno di lungo periodo”, riconosciuto a chi abbia soggiornato legalmente e in via continuativa per 5 anni sul territorio nazionale. Per gli extra Ue sono richiesti anche reddito minimo, alloggio idoneo, superamento di un test di conoscenza della lingua. La riforma introduce, inoltre, lo ius culturae, secondo cui può ottenere la cittadinanza il minore straniero arrivato prima dei 12 anni che abbia frequentato in Italia uno o più cicli scolastici. L’approvazione definitiva della nuova legge permetterebbe all’Italia di allinearsi a Paesi come Francia, Germania e Gran Bretagna.
Ma se da un lato sono moltissimi i personaggi e i semplici cittadini ad appoggiare le campagne a favore dell’introduzione di questo diritto, dall’altro la discussione in Parlamento è accompagnata da bagarre, polemiche e inevitabili strumentalizzazioni politiche.
Purtroppo di questi tempi sappiamo bene che per molti dire straniero – indipendentemente se sia arabo, cinese, africano o esquimese – equivale a dire nemico, terrorista, clandestino, persona non gradita. Ed è proprio su questa paura, e sull’ignoranza di tanti, che alcuni personaggi politici giocano per confondere le acque e per opporsi a una legge che i diretti interessati attendono da tanti anni.
Tra le diverse assurdità che ho sentito pronunciare in queste settimane, ce n’è una che più di altre mi ha indignato e che più o meno sosteneva che dal momento che alcuni dei terroristi responsabili di attentati in giro per l’Europa o per il mondo erano immigrati di seconda generazione, dare la cittadinanza ai figli degli immigrati che vivono nel nostro Paese avrebbe esposto l’Italia a un maggiore rischio attentati. Come se una persona che nasce e cresce in uno Stato avesse più possibilità di far saltare in aria dei suoi connazionali solo perché in possesso di un documento.
A me appare più “ragionevole” – passatemi il termine – credere che possa accadere l’esatto contrario. Fino a quando una persona continuerà ad essere considerata diversa, dal punto di vista dei diritti, solo per via del suo sangue e del suo albero genealogico, allora ci sarà un rischio reale. E non parlo necessariamente di attentati – appannaggio di pochi squilibrati – ma di un rischio ben più alto, quello dell’esclusione sociale che purtroppo colpisce e ferisce a morte forse più di qualsiasi cintura esplosiva.
E allora si vada avanti spediti verso il riconoscimento di questo diritto, per dimostrare ai genitori di questi bambini che hanno scelto l’Italia per dare una speranza ai propri figli, che il nostro Paese non si limita ad avere bisogno solo dei soldi delle loro tasse o del loro lavoro, ma che considera i loro discendenti come cittadini italiani a tutti gli effetti.
In caso contrario, si troveranno davanti a uno “ius sola”.
Il direttore
Vignetta di copertina: Freccia.