di Francesco Lo Piccolo.
Lo possiamo chiamare in una decina di modi. Possiamo chiamarlo carcere o istituto penitenziario, casa mandamentale o casa circondariale, casa di reclusione o casa penale, carcere speciale o supercarcere, istituto penale minorile o casa di lavoro. Potremmo continuare e trovare altre definizioni, ma il risultato non cambia: è un luogo che, in grande sintesi, da una parte serve a tranquillizzare le vittime e soddisfare quello che viene definito il senso di giustizia, dall’altra a punire chi commette reati, isolarlo dalla società, recuperarlo e reinserirlo (rieducato) una volta espiata la pena. Inutile dire che è un meccanismo che costa una montagna di soldi (due miliardi e mezzo all’anno) e che non ha certo grandi risultati (una volta scontata la pena e messi in libertà, quasi sette ex detenuti su dieci tornano a violare le leggi e ritornano in carcere. E non capita una volta, ma più volte. E spesso dopo aver compiuto un reato più grave di quello commesso la prima volta. Insomma un fallimento sia dal punto di vista dei conti economici, sia dal punto di vista degli effetti reali).
E’ a partire da queste considerazioni, peraltro condivise da tanti che si occupano di sistema penale, che nel carcere di Pescara, l’associazione Voci di dentro ha proposto alla direzione e avviato un progetto sperimentale chiamato “La città”. Una specie di isola dentro il carcere (6 grandi stanze e un lungo corridoio) che vuole essere un luogo il meno possibile simile a un carcere (sezioni e celle dove stanno i detenuti, solo loro) e il più possibile simile a una città con le sue strutture (scuola, posto di lavoro, biblioteca, piazza, bar, cinema, eccetera, frequentato oltre che dai detenuti dai volontari dell’associazione, studenti, docenti, uomini e donne, ragazzi e ragazze).
Il progetto è partito due anni fa, grazie anche all’aiuto di un gruppo di universitari dell’Associazione “Viviamolaq”: in pochi mesi detenuti e volontari hanno arredato e dipinto i locali e tutte le mattine dalle 9 alle 12, ma con la prospettiva di estendere il progetto a tutta la giornata, una trentina di detenuti hanno cominciato a fare i conti con questa realtà. Una realtà che in definitiva altro non è che un posto normale che mette al primo posto le relazioni tra le persone. Un non-carcere, un luogo di senso per rompere l’isolamento del detenuto, per liberarlo dal gruppo che si forma in carcere e che è uguale a quello che c’è fuori nei rioni degradati di Napoli, nei quartieri dove vivono i rom, nelle strade dello spaccio.
Certo, “La città” non è partita subito con queste idee, inizialmente c’erano solo l’aula studio, l’aula lavoro, l’aula bar, l’aula giornalismo. E’ col tempo che le cose sono cambiate. Per i volontari dell’associazione Voci di dentro e per i detenuti. Per quanto riguarda i volontari si è modificato il loro modo di essere. Non più soci di un’associazione vecchia maniera a spot con piccoli progetti o corsi, ma progetto complessivo dove ciascuno opera insieme agli altri modificando giorno dopo giorno la stessa realtà. A piccoli passi, momento dopo momento si sono create dinamiche, relazioni, rapporti inaspettati oltre che insperabili in una istituzione totale come quella del carcere.
Un cambiamento che ha coinvolto anche i detenuti. Per loro ha significato uscire dalla passività del loro ruolo per diventare attivi o almeno cercare di diventarlo. Cosa non facile, anzi la più difficile. Perché passivi e detenuti si diventa: per difendersi, per resistere, per sopravvivere. E allora non resta che adattarsi: all’interno del clan, in cella o in sezione, relazionandosi con gli altri detenuti, si continua ad essere quello che si è stati fuori, mentre davanti all’agente o davanti all’educatore o direttore si finge di essere cambiati per ottenere un qualche beneficio. Per il resto è solo un aspettarsi, un chiedere e un non dare, tenendosi stretta addosso la corazza o l’abito del carcerato. Un vestito che in realtà traveste, che conferma una identità. Un vestito dal quale bisogna invece spogliarsi…perché solo così si può cambiare, si può comprendere l’errore e finalmente uscire dal carcere, dalla cosiddetta carcerite, e una volta per tutte.
Questo in definitiva sta cercando di fare “La città”. Un cambiamento enorme. E a due anni dall’inizio, tra alti e bassi, delusioni, battute d’arresto e ripartite, qualcosa sta funzionando, il seme del cambiamento è piantato. Certo va coltivato, va curato, giorno dopo giorno, ma la volontà non manca, soprattutto non mancano le forze. Tante e fresche. Perché l’altra novità di questo progetto è l’aiuto che viene dall’Università D’Annunzio di Chieti-Pescara. Grazie a una convenzione con il corso di laurea di psicologia e di sociologia-criminologia, sono decine gli studenti della triennale e della magistrale che prendono parte attiva al lavoro di Voci di dentro. Sono tirocinanti e stagisti, i loro studi sono verificati sul campo, ma soprattutto sono persone della società che si relazionano con altre persone e che portano il mondo di fuori nel mondo di dentro, rompendo appunto quell’isolamento che non porta e non ha mai portato a nulla di buono.
Grazie a loro sono stati avviati decine di laboratori come quello di immagine, di fotografia, di scrittura e lettura, la sartoria. Non corsi, ma incontri, e poi dibattiti sul sé e sull’altro, sulle cose e sulla vita. Marianna, una delle tirocinanti ha scritto: “In carcere non è facile concedersi alla consapevolezza delle proprie emozioni, in carcere non ci si ascolta, ma si sopravvive in mezzo alla rabbia, alla frustrazione ed ai rimorsi che giorno dopo giorno affliggono le persone detenute come una goccia che scava nella roccia. L’obiettivo del nostro progetto è quello di aiutare i ragazzi a non aver paura di emozionarsi e di esprimere liberamente tutte le emozioni senza barriere o vincoli”. E in uno dei testi del laboratorio di scrittura un detenuto ha scritto: “Qui si torna a vivere, a ridere, qui a “La città” si riscoprono valori dimenticati, ci si riconcilia con gli altri, si scopre la vita che abbiamo buttato via e che domani potremo finalmente riavere…diversa”. Diversa, proprio così. Una vita fuori dagli schemi e dalle gabbie, senza i marchi che vengono imposti e che per tanto tempo sono serviti per nascondersi.
Insomma, questo il progetto de “La città”: un’isola per superare il carcere e dare orizzonti e futuro a delle persone che inutilmente vivono in uno spazio e in un tempo morti, soggetti e non più oggetti. Affinché la pena non sia una pena a vita.
Qui, a questo link, il servizio su “La città” andato in onda lo scorso 24 aprile su Rai3.