Il romanzo “La ferrovia sotterranea” di Colson Whitehead (pubblicato in Italia da Sur), si è aggiudicato il premio Pulitzer per la narrativa 2017.
Non appena letto il titolo e il cognome dell’autore, viene in mente il detto “in nomen omen” (per chi non lo sapesse, Whitehead significa “testa bianca”) e come “ferrovia sotterranea” in alcuni libri di storia veniva definita una rete di luoghi sicuri e persone fidate, gestita da abolizionisti, dove gli schiavi neri fuggiti dalle piantagioni degli Stati sudisti dell’America non ancora unita potevano trovare rifugio.
L’autore però la immagina come una vera e propria ferrovia sotterranea costituita da binari e con locomotive molto diverse tra loro, tutte corredate di un unico vagone: alcune fatte di rottami, altre obsolete e altre ancora comode e luccicanti. Un percorso che viene seguito attraverso la fuga di Cora, una giovane schiava di colore che riesce a fuggire da una piantagione della Georgia in cui è nata.
Il romanzo si sviluppa intorno alla sua figura e alla sua fuga, con spaccati della sua infanzia con la nonna Ajarry e la mamma Mabel; le persone che incontrerà nella sua fuga saranno di complemento, seppure importanti come George (che la spinge alla fuga) o come Ridgeway, il cacciatore di schiavi che la insegue.
Cora si imbatte presto nel cosiddetto “sentiero della libertà”, come lo chiamano grottescamente gli uomini bianchi: chilometri di strada ai cui fianchi vengono impiccati ed esposti corpi di persone di colore, non più uomini né donne, ma simboli e avvertimenti.
Si scopre, attraverso il suo viaggio tramite la ferrovia sotterranea, che ci sono Paesi che si regolano in modo diverso rispetto alla schiavitù delle persone di colore, che pure tutti considerano esseri inferiori: alcuni come in Georgia, in cui Cora è nata, li considerano oggetti da possedere e sfruttare, o altri come in Carolina del Sud che fingono di integrarli ma li piegano, altri ancora come la Carolina del Nord che non desidera ospitare neri e via via ancora diversi Stati come il Tennessee e l’Indiana. Ma attraverso gli occhi di Cora si scopre anche che l’uomo bianco, il dominatore, il padrone, ha punti deboli quali il timore che la popolazione nera aumenti in modo vertiginoso e quindi diventi potenzialmente pericolosa.
L’autore non è certo tenero con il popolo americano e utilizza di proposito un linguaggio scarno e molto essenziale, con periodi brevi e incisivi, proprio per imprimere in modo indelebile il disgusto verso alcune pratiche.
Il pensiero di Ajarry, nonna di Cora, sintetizza concretamente e crudamente una realtà oggettiva: «Ogni oggetto aveva un valore e man mano che il valore cambiava, cambiava anche tutto il resto. Una zucca a fiasco rotta valeva meno di una zucca che poteva contenere l’acqua, un uncino che tratteneva i pesci gatto era più prezioso di uno che lasciava sfuggire la preda. In America la cosa curiosa era che anche le persone erano oggetti». L’ultima frase arriva come un pugno nello stomaco.
Del resto, come afferma Withehead in un’intervista, il razzismo è un pensiero radicato: è come un virus che si trasforma e muta, magari si nasconde per un po’ ma torna.
Un libro storico, in fondo, che andrebbe fatto leggere nelle scuole, per comprendere il fenomeno su cui molto è stato scritto a partire da “La capanna dello zio Tom”, ma che non sarà mai sufficiente per denunciare quanto è stato fatto. Non solo, va letto anche per riflettere se la schiavitù di ieri rispetto a quella dei più deboli di oggi abbia veramente differenze sostanziali, senza gli occhiali dell’ipocrisia.