Della vita privata di Oriana Fallaci si sa veramente poco, lei non amava essere baciata dalla luce dei riflettori, raramente compariva in televisione o concedeva interviste, e stanno sulle dita della mano le volte in cui ha lasciato trapelare qualcosa di sé. Così, se oggi a 10 anni dalla sua morte sappiamo qualcosa in più di lei, delle passioni e delle idiosincrasie, delle curiosità e dei retroscena, lo dobbiamo a “La paura è un peccato. Lettere da una vita straordinaria” (Rizzoli, 2016). Singolare la scelta del titolo: è un’asserzione rinvenuta in una delle centinaia delle sue cartelle per gli appunti che sintetizza bene il pensiero di una donna convinta che il giornalismo fosse fatto essenzialmente di coraggio, onestà intellettuale e attacco diretto attraverso le parole, se necessario.
Però Oriana Fallaci detestava scrivere lettere, soprattutto se nel frattempo stava lavorando a un libro: «Mi pesa perfino mettere insieme un messaggio di poche parole», confidava agli amici più cari, perché i romanzi erano i suoi figli e lei, madre innamoratissima, aveva parole solo per loro. Si definiva, come si legge nella missiva a Roger Absalom, uno «scrittore prestato al giornalismo e non uno scrittore che poi si è messo a scrivere libri», e in effetti era instancabile, consapevole che la scrittura fosse un lavoro di grande disciplina, una ricerca continua della bellezza e, come spiega in questa raccolta, «Un ben bizzarro processo creativo. Un’ossessione, una forma di follia. Ma è così».
Sicché le costava fatica abbandonare i suoi romanzi e scrivere lettere, e tuttavia qualche volta doveva pure interrompersi, tra la stesura delle sue opere e il lavoro di giornalista. Apprendiamo quindi dai suoi carteggi del rapporto di grande stima che la legava al socialista Pietro Nenni che chiamava affettuosamente “il mio Nenni”, dell’amicizia con Pier Paolo Pasolini fino alla sua morte, quando Oriana Fallaci fu la prima a indagare per scoprire la verità. La raccolta delle epistole svela il ritratto di una donna che non conoscevamo, che quando si rivolge all’amica Ingrid Bergman e a sua figlia Isabella Rossellini smette la corazza da guerriera per parlare di sentimenti e tenerezza, oppure veniamo a conoscenza dei consigli dispensati a una tale Mariella, sedicenne ammiratrice, che sprona a leggere e a studiare il più possibile e alla quale spiega che «la prima condizione di libertà e di civiltà è permettere agli altri di pensare come vogliono».
Così come ritroviamo l’Oriana graffiante, quella per cui in tanti o l’abbiamo amata o l’abbiamo odiata, irriverente, determinata, caparbia, e vediamo ribadite le sue celebri posizioni contro gli uomini di potere mondiale, da Henry Kissinger – consigliere per la sicurezza nazionale statunitense – a Fidel Castro che non riuscì mai a intervistare.
E poi c’è l’amore, quello nei confronti di Alekos Panagulis, l’eroe della Resistenza greca e suo compagno fino al giorno in cui verrà assassinato. A lui dedica scritti vibranti e colmi d’emozione, persino quando lo rimprovera perché non si impegna abbastanza nella stesura della sua autobiografia (che poi scriverà la Fallaci e sarà il romanzo “Un uomo”). Panagulis è un poeta, non conosce altra forma espressiva che la poesia, e non sa che «La prosa non è un urlo. La prosa è una disciplina».
Poi, l’assassinio di Alekos e un dolore profondo come un abisso, le accuse e le ingiurie della famiglia di lui, una profonda solitudine aggravata dal cancro che lei chiama “l’alieno”, un essere che la divora giorno dopo giorno e che le impedirà di terminare il suo ultimo romanzo “Un cappello pieno di ciliege”. Proprio negli ultimi anni della sua vita, Oriana Fallaci aveva stretto un rapporto profondo con monsignor Fisichella ed è singolare come una donna – che da sempre si era definita atea – parta all’improvviso alla ricerca di una dimensione spirituale. L’ultima lettera della raccolta è indirizzata proprio a lui e scrive: «Vieni più presto che puoi. Io ti aspetto come ne “La Buona Terra” di Pearl Buck i contadini cinesi aspettano la pioggia in agosto…».