Appartengo a quella categoria di lettori che, quando leggono un libro, non ci pensano due volte: se poco convinti non esitano ad abbandonare l’impresa nelle prime pagine. Siamo troppo precipitosi? Ci precludiamo la possibilità di cambiare idea, di stupirci? Probabilmente è vero ma non possiamo farci nulla, è più forte di noi. Quelle volte però che un libro ci piace ci chiudiamo in casa, abbandoniamo gli impegni quotidiani e dedichiamo tutte le nostre energie a leggere. A me capita di rado ma quando succede è come una magia: sono coinvolta a tal punto dalla storia narrata che ci penso e ci ripenso per mesi, mi rimane attaccata, diventa parte del mio patrimonio culturale.
L’ultimo libro che ho divorato nell’arco di una giornata è stato La strada del ritorno è sempre più corta, romanzo d’esordio di Valentina Farinaccio, pubblicato per la Mondadori nell’agosto del 2016. La storia è quella di due donne, madre e figlia, unite del dolore di un lutto che, nonostante gli anni, non sono riuscite ancora ad elaborare. Non si tratta però di una storia triste, tutt’altro. Vera ha trent’anni e si vede finalmente costretta ad affrontare le proprie paure ma, per farlo, deve necessariamente ricostruire il suo passato: tornare alle origini risulterà l’unica strada da percorrere, in fin dei conti – come suggerito dal titolo – la più breve, per comprendere finalmente sé stessa. Il libro della Farinaccio, usando un’espressione comune, “funziona” perché ci sono tutti gli ingredienti giusti, compresa una scrittura limpida e naturale che, in virtù della sua sincerità, arriva dritta al cuore del lettore.
Qualche giorno fa ho avuto la possibilità di intervistare Valentina Farinaccio e ho scoperto che è esattamente come l’immaginavo: una giovane donna dalla voce dolce e frizzante. Emana un energico entusiasmo che ha finito col contagiarmi. Ecco com’è andata la nostra chiacchierata.
Com’è nata l’idea di scrivere La strada del ritorno è sempre più corta?
Non c’è stato un momento preciso in cui mi son detta “ora provo a scrivere un romanzo”, certo in cuor mio il desiderio c’era ma non è stata una cosa programmata: scrivo abitualmente racconti, lo faccio continuamente sin da quando ero piccola, un giorno ho intuito che uno di questi aveva delle potenzialità: ho intuito che c’erano gli ingredienti per creare qualcosa di diverso. È così che è nato tutto.
Come definiresti il rapporto della protagonista con la madre?
È senz’altro un rapporto in evoluzione: si alimenta di silenzi, di un non detto che cresce ingigantendosi quotidianamente. Le due donne si sostengono ma, a volte, manca il coraggio di dirsi le cose per paura di farsi male eppure, spesso, è necessario attraversare il male per superarlo davvero. Soprattutto con chi ci è più vicino, capita di trascorrere la vita senza essere effettivamente connessi gli uni con gli altri: non ci si conosce realmente. La settimana al mare che Vera e Lia decidono di trascorrere insieme rappresenta proprio l’opportunità che madre e figlia si concedono per abbattere finalmente quel muro di silenzio e, allo stesso tempo, trovare la forza di esporsi alla verità.
Cosa rappresenta il padre per Vera quando la ragazza è cresciuta e ha trent’anni?
Il dramma di Vera è quello vissuto da tutti coloro che non hanno avuto la possibilità di conoscere il proprio genitore: è il dramma di non sapere. Anche attualmente capita spesso di dare per scontata l’idea standard di famiglia: c’è una madre e c’è un padre, eppure non per tutti i bambini è così. A Vera manca una metà: guardandosi allo specchio, non può ricostruire con precisione quali tratti somatici provengano dal padre, se il suo carattere, i suoi atteggiamenti, le sue espressioni e la sua ironia sono sue specificità oppure se si tratta di caratteristiche ereditate dal genitore scomparso. Quando qualcosa non si può ricostruire l’unico modo per placare il bisogno di conoscere è immaginare. Da questo punto di vista il manoscritto che Giordano lascia alla figlia è un regalo prezioso perché permette alla ragazza di comprendere di cosa è fatta: conosce per la prima volta suo padre e, di conseguenza, anche sé stessa.
In cosa tu e Vera non somigliate affatto?
A parte Santa che è stato un soggetto guardato dall’esterno, c’è qualcosa di me in ogni personaggio del romanzo ma sono spalmata in dosi maggiori certamente tra Vera, Lia e Giordano. Tre anni fa, probabilmente, ti avrei dato una risposta diversa, oggi posso dirti che io e Vera non condividiamo la paura nell’affrontare le cose: col tempo ho imparato a infilarmi nella realtà anche a costo di farmi male.
“La strada del ritorno è sempre più corta” è in gran parte ambientato nella tua terra d’origine, il Molise. Il rapporto conflittuale che Vera ha con il suo territorio è in parte eredità materna e in parte legato ai ricordi d’infanzia. Che cosa rappresenta per te il Molise e la città di Campobasso in cui sei nata?
E’ stato del tutto naturale ambientare il romanzo in Molise, volevo ci fossero tracce delle mie radici: è una dichiarazione d’amore alla mia terra e alla mia città. Vivo a Roma da anni ma appena ho tre giorni liberi torno a casa perché è Campobasso la mia vera casa e vorrei tanto che il Molise fosse valorizzato: è un territorio così bello!
Devo ammettere che giunta all’ultima pagina ho sentito un po’ di nostalgia: mi dispiaceva essere arrivata già alla fine, credo che questo sia uno dei risultati che spera di ottenere qualsiasi scrittore. Hai una scrittura limpida e delicata: quali sono i tuoi modelli di riferimento quando scrivi?
Più che modelli ci sono degli scrittori che mi hanno colpito di più. Sono una lettrice accanita: leggo tanto, da sempre, quindi non è semplice fare delle scelte anche perché le mie preferenze cambiano a seconda degli eventi della vita. Certo, ho una mia triade insuperabile formata da Moravia, Pavese e la Morante: questi tre autori sono per me “intoccabili” e mi piace pensare che mi abbiano insegnato a scrivere. “L’isola di Arturo”, ad esempio, è un perpetua magia per me: ogni volta che lo rileggo, ne colgo sfumature nuove. Mi capitano poi “colpi di fulmine”: romanzi che non avevo ancora letto e che scopro in tutto il loro splendore. Il libro del momento, se così posso definirlo, è “Un amore” di Buzzati: mi ha folgorata!
Quando hai creduto che scrivere sarebbe potuto essere il tuo mestiere e quando hai capito che ci stavi riuscendo?
Alle scuole medie ho capito che mi piaceva scrivere storie. L’ho capito chiaramente quando, durante il compito in classe d’italiano, mi mettevo a scrivere anche il tema per la mia compagna di banco: trovavo tutto ciò divertentissimo perché avevo l’opportunità di scrivere due racconti anziché uno. Durante il periodo scolastico ho gelosamente custodito l’amore per la scrittura: ricordo che scrivere era per me qualcosa di privato, un percorso interiore da percorrere in solitaria. Solo quando ho firmato il contratto con la Mondadori ho realizzato che l’ambizione di avverare il mio sogno professionale stava per divenire realtà. Ovviamente ci sono stati anni e anni di gavetta alle spalle: ho sempre custodito del tempo per leggere e scrivere tanto. La scrittura necessita allenamento, disciplina e costante esercizio: solo così è possibile migliorare.
Da quando il romanzo è uscito, ovvero da agosto 2016, la tua vita è cambiata molto: sei sempre in giro a promuovere il tuo libro. Qual è stato l’incontro che ti ha più arricchito e quale il posto che ti è rimasto nel cuore?
Quest’anno è stato meraviglioso: ho avuto l’opportunità di viaggiare quotidianamente, ho visto posti incantevoli e conosciuto persone splendide. Proprio per questo fare una classifica dei momenti migliori è per me impossibile. Una cosa però posso dirla: Trieste è una città che ha fatto breccia nel mio cuore, non c’ero mai stata prima e l’ho trovata incantevole. Il sei settembre scorso ho avuto l’onore di presentare il mio libro ad Arona, sul lago Maggiore, avendo al mio fianco Dacia Maraini: tutt’oggi la gioia che ho provato mi fa venire i brividi. A fine presentazione la Maraini mi ha proposto di prendere uno yogurt insieme. Ero emozionatissima e incredula. Non facevo altro che pensare a quanto fosse tutto bellissimo tant’è che quando la Maraini mi ha chiesto come fosse lo yogurt ho esclamato di getto: «bellissimo!». Se solo ci rifletto… Che ridere! Ci tengo infine a dire che quest’anno ho scoperto il mondo dei librai: uomini che amano i libri in una maniera unica. Quello del libraio appare un mestiere antico, sorpassato dai ritmi frenetici imposti dalla modernità, eppure, in virtù della passione che anima queste parsone, sopravvive nonostante tutto. Io credo che i librai vadano incoraggiati perché fanno tanto per la letteratura e ringrazio tutta la categoria per questo.
Prossimi obiettivi lavorativi?
A marzo uscirà il mio secondo romanzo, sempre con la Mondadori. Sto lavorando alla copertina e scrivo ogni giorno: i prossimi mesi saranno decisivi. Non vedo l’ora.
di Milena D’Aquila