Labsus: Laboratorio per la sussidiarietà

“Labsus, il Laboratorio per la sussidiarietà, ha un obiettivo ben preciso, fondato su una certezza. La certezza è che le persone sono portatrici non solo di bisogni ma anche di capacità e che è possibile che queste capacità siano messe a disposizione della comunità per contribuire a dare soluzione, insieme con le amministrazioni pubbliche, ai problemi di interesse generale”.

Con queste parole Labsus presenta la propria attività fornendoci, a un tempo, una chiave di lettura di elaborazioni teoriche e pratiche amministrative.

I soci fondatori di Labsus sono Cittadinanzattiva, associazione nata nel 1978 per la promozione e la tutela dei diritti dei cittadini e dei consumatori, Astrid, associazione costituita da studiosi parlamentari, politici, dirigenti della PA impegnati nella progettazione e implementazione delle riforme istituzionali e amministrative, Legacoop Servizi, l’associazione nazionale delle cooperative di servizi, l’associazione ambientalista Legambiente, il Movimento difesa del cittadino, membro del Consiglio Nazionale dei Consumatori e degli Utenti (Cncu) costituito presso il Ministero dello sviluppo economico e di Consumers’ forum, il Movimento di volontariato italiano, associazione nata da iniziative di base per rimuovere le cause del disagio sociale.

Sussidiarietà orizzontale, cittadinanza attiva, fiducia nei rapporti fra le persone e verso le istituzioni, alleanze fra cittadine cittadini imprese e istituzioni sulla base del principio di sussidiarietà, produzione cura e valorizzazione dei beni comuni, uguaglianza delle opportunità per tutti, cittadinanza d’impresa, partecipazione ai processi consultivi e decisionali, assunzione diretta di responsabilità nella sfera pubblica: sono queste le espressioni chiave della Carta della sussidiarietà che, con grande efficacia, descrive l’identità e le finalità dell’azione di Labsus.

La rilevanza dei temi trattati nella Carta ci suggerisce di invitare i lettori di Felicità Pubblica alla lettura del testo integrale.

 

L’8 gennaio abbiamo dato notizia della presentazione del Rapporto Labsus 2015 sull’amministrazione dei beni condivisi (leggi l’articolo). Il testo è suddiviso in 5 sezioni. Nella prima – L’Italia del Regolamento – viene narrata la rapida e per certi versi inattesa diffusione nei Comuni e nelle comunità locali del Regolamento per l’amministrazione dei beni condivisi. Nella seconda sono approfonditi i profili giuridici del Regolamento. La terza si sofferma sui Patti di collaborazione, strumento operativo di attuazione del Regolamento. La quarta – Da nord a sud la voce dei cittadini attivi – propone alcune delle esperienze più interessanti, mentre la quinta – Appendice – fornisce utile materiale di consultazione.

Per fornire una chiave di lettura del Rapporto Labsus 2015 proponiamo di seguito l’Introduzione di Gregorio Arena, Presidente del Comitato Direttivo di Labsus, rinviando alla consultazione del testo integrale.

Introduzione

Questo è il primo Rapporto annuale di Labsus. Ma è anche il resoconto, dettagliato e approfondito, di una vicenda che a raccontarla non ci si crede, perché l’Italia di cui parliamo in queste pagine non si vede, non fa notizia. Eppure c’è, sta crescendo e prendendo consapevolezza di se stessa e nei prossimi anni è destinata ad avere un ruolo centrale nel dibattito pubblico e nella vita del Paese.

La vicenda di cui parliamo in questo Rapporto ha radici lontane, perché già nel 1997, in un saggio intitolato Introduzione all’amministrazione condivisa, avevamo ipotizzato che la nostra amministrazione pubblica stesse evolvendo verso un nuovo modello organizzativo fondato sulla collaborazione, anziché sul conflitto, fra cittadini e amministrazioni. Nel 2001 il modello dell’amministrazione condivisa da mera ipotesi teorica divenne disposizione costituzionale del principio di sussidiarietà, secondo questa formulazione: “Stato, regioni, province, città metropolitane e comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà” (art. 118, ultimo comma). Si tratta di una formulazione che non legittima in alcun modo un ritrarsi dei poteri pubblici di fronte ad iniziative di interesse generale da parte dei privati, anzi prevede che tali iniziative diano vita ad un’alleanza fra amministrazioni e cittadini. L’amministrazione condivisa, appunto.

La Costituzione a volte non basta

Per promuovere questa nuova idea di cittadinanza, attiva, responsabile e solidale nel 2005 fu fondato Labsus, il Laboratorio per la sussidiarietà. Ma dopo qualche anno ci accorgemmo che non bastava che la Costituzione riconoscesse che quando i cittadini si attivano non sono soltanto amministrati, secondo le categorie tradizionali del Diritto amministrativo, bensì soggetti responsabili e solidali che in piena autonomia collaborano con l’amministrazione nel perseguimento dell’interesse generale o, detto in altro modo, nella cura dei beni comuni.

Non basta perché leggi e regolamenti continuano a considerare i cittadini come amministrati anziché come alleati. Tant’è vero che quando i cittadini vogliono prendersi cura dei beni comuni del proprio territorio, spesso gli amministratori locali non glielo consentono, temendo di assumersi responsabilità di vario genere. Nonostante ciò, Labsus in dieci anni ha raccolto una banca dati di oltre 500 casi di cittadini che si sono impegnati nella cura dei beni comuni materiali e immateriali del territorio.

Il Regolamento per l’amministrazione condivisa

Ecco perché, con la collaborazione convinta del comune di Bologna, abbiamo tradotto l’ultimo comma dell’art. 118 della Costituzione in un Regolamento comunale di 36 articoli che il 22 febbraio 2014 è stato messo a disposizione di tutti i comuni italiani in un affollatissimo incontro a Bologna e poi sul sito di Labsus, da cui è stato scaricato da circa quattromila persone (il testo è in Appendice nella versione online del Rapporto).

Ad oggi il Regolamento è stato adottato, all’unanimità o con qualche astensione, dai consigli di 65 comuni e altri 82 lo stanno adottando. Fra questi c’era anche Roma, la cui Giunta aveva nominato nell’aprile 2015 un gruppo di lavoro composto da funzionari di vari dipartimenti e di cui faceva parte (senza oneri per l’amministrazione) anche un esperto esterno, il presidente di Labsus. Il gruppo ha lavorato intensamente fino ai primi di ottobre 2015 elaborando una bozza di Regolamento che sotto vari profili tiene conto dei miglioramenti apportati da altri comuni al testo base di Bologna, oltre che delle prime esperienze applicative in questi mesi.

La bozza di Regolamento era appena stata trasmessa agli assessori competenti quando la Giunta Marino è caduta. In attesa che una nuova amministrazione capitolina decida di rimettere in moto il processo per adottare il Regolamento riteniamo doveroso non sprecare il prezioso lavoro svolto finora, mettendo a disposizione di chiunque voglia avvalersene la bozza che riportiamo in Appendice nella versione online del Rapporto.

Perché un regolamento e non una legge

Dal punto di vista strettamente tecnico-giuridico potrebbe sembrare azzardata la scelta, in assenza di leggi in materia, di dare attuazione con un regolamento comunale ad un principio costituzionale. Ma l’esperienza di questi mesi dimostra che è stata invece una scelta vincente, per vari motivi. Innanzitutto, la procedura per l’approvazione di un regolamento comunale è semplice e rapida. Inoltre ciascuno degli 8.057 comuni italiani può adattare il nostro regolamento-tipo alla propria realtà e questa grande varietà di situazioni, come si può constatare in questo Rapporto, ha portato a miglioramenti del testo. Infine i regolamenti comunali sono facilmente modificabili alla luce dell’esperienza, tant’è che i Regolamenti sull’amministrazione condivisa approvati finora prevedono un periodo sperimentale di applicazione al termine del quale si farà una verifica dei risultati.

Il ruolo essenziale dei patti di collaborazione

Un’altra scelta è stata cruciale, quella di prevedere che “La collaborazione tra cittadini e amministrazione si estrinseca nell’adozione di atti amministrativi di natura non autoritativa” (art. 1, comma 3 del Regolamento) detti “patti di collaborazione”. Sono disciplinati dettagliatamente dall’art. 5 e sono “lo strumento con cui Comune e cittadini attivi concordano tutto ciò che è necessario ai fini della realizzazione degli interventi di cura e rigenerazione dei beni comuni”. In sostanza, i patti di collaborazione sono lo snodo tecnico-giuridico su cui si fonda quella alleanza fra cittadini e amministrazione che dà vita all’amministrazione condivisa. Non per supplire con l’intervento dei cittadini a deficienze delle amministrazioni bensì per affrontare meglio, insieme, la complessità delle sfide che il mondo attuale pone a tutti, amministrazioni pubbliche e cittadini.

Non ci sono più alibi

Come si è detto, spesso in questi anni gli amministratori locali si sono opposti al coinvolgimento dei cittadini nella cura dei beni comuni urbani perché mancando disposizioni legislative o regolamentari temevano l’assunzione di responsabilità derivanti dall’attuazione del principio costituzionale di sussidiarietà.

Grazie al Regolamento quel vuoto normativo non c’è più e neppure l’alibi per tutti coloro che preferiscono che i cittadini non siano attivi e responsabili ma continuino ad essere semplici amministrati. Soprattutto, non c’è più l’ostacolo che, impedendo ai cittadini di assumersi la responsabilità della cura dei beni comuni urbani, impediva di liberare nell’interesse generale le infinite energie presenti nelle nostre comunità locali.

“Un popolo che si sente comunità”

Perché alla fine il Regolamento è soltanto il mezzo per raggiungere un obiettivo molto più grande e ambizioso, quello individuato dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella nel suo discorso di insediamento alle Camere il 3 febbraio 2015, quando disse che “Parlare di unità nazionale significa ridare al Paese un orizzonte di speranza” ma “Perché questa speranza non rimanga un’evocazione astratta, occorre ricostruire quei legami che tengono insieme la società”.

Ma come si fa a ricostruire “i legami che tengono insieme la società”? Come si fa a fare in modo che “Un popolo si senta davvero comunità”, per usare le parole conclusive del discorso del Presidente?

Ci sono molti modi, naturalmente, ma noi ne stiamo proponendo uno che evidentemente risponde ad un bisogno profondo dei nostri concittadini in questa fase storica, perché ovunque andiamo la risposta è un’entusiastica conferma di un altro passaggio del discorso del Presidente, quando disse che “Esistono nel nostro Paese energie che attendono soltanto di trovare modo di esprimersi compiutamente”.

Ricostruire il Paese

Noi proponiamo infatti di dar vita in tutte le città italiane, grandi e piccole, a comunità create condividendo attività di cura dei beni comuni, materiali e immateriali, presenti sul territorio, sulla base del principio di sussidiarietà.

Si tratterebbe di ricostruire il Paese come nel dopoguerra, ma non investendo sulla produzione e sul consumo di beni privati, come negli anni del boom economico, bensì soprattutto sulla cura e lo sviluppo dei beni comuni materiali e immateriali. Questa ricostruzione è già in atto, migliaia di cittadini attivi si stanno già prendendo cura dei beni comuni presenti sul proprio territorio, ma senza la consapevolezza che le loro singole, spesso piccole ed isolate iniziative potrebbero far parte di un più ampio movimento di ricostruzione materiale e morale.

Ricostruzione materiale, in quanto le attività di cura dei beni comuni svolte dai cittadini attivi contribuiscono in maniera significativa al miglioramento della qualità della vita di tutti i membri della comunità.

Ma anche ricostruzione morale, perché in un Paese governato da oligarchie spesso incompetenti e corrotte, il fatto che semplici cittadini si prendano cura dei beni di tutti con la stessa attenzione che riservano ai propri dimostra come nella società civile ci siano ancora senso di responsabilità e di appartenenza, solidarietà e capacità di iniziativa.

Dare fiducia

Non è un caso se comune (da cui comunità) viene dal latino cum+munus, che vuol dire svolgere un compito insieme. Perché la comunità si costruisce appunto svolgendo insieme un compito condiviso, si “fa comunità” lavorando insieme per un obiettivo che ci si è dati autonomamente.

Per questo, quando dei cittadini si prendono cura degli spazi del proprio quartiere, quello che si vede sono delle persone che fanno la manutenzione di una piazza, un giardino, una scuola, etc. Ma in realtà quelle persone stanno facendo qualcosa di molto più importante, cioè stanno rafforzando i legami che tengono insieme la loro comunità e producendo capitale sociale. Il loro stesso comportamento comunica che è possibile avere fiducia nel prossimo.

Un altro modo di guardare alle persone

Questo Rapporto dimostra che le risorse per curare e sviluppare i beni comuni del nostro Paese ci sono, ma continuano ad essere ignorate perché per farle emergere è necessario considerare le persone come portatrici non soltanto di bisogni, ma anche di capacità.

Se accettiamo questa “antropologia positiva” e promuoviamo la costruzione di comunità aggregate attorno ad attività di cura dei beni comuni possiamo affrontare la crisi valorizzando nell’interesse generale le infinite risorse di intelligenza, creatività e capacità di lavoro di cui siamo dotati noi italiani, liberando energie che, come ha osservato anche il Presidente della Repubblica, sono lì, pronte per entrare in gioco.

Le nostre ma anche quelle di coloro che formalmente non sono cittadini italiani, cioè gli stranieri che vivono e lavorano nel nostro Paese e che prendendosi cura dei “nostri” beni comuni si sentirebbero veramente cittadini, in senso sostanziale. E poi ancor di più dobbiamo riconoscere e valorizzare le capacità del milione circa di ragazzi e ragazze nati qui da genitori stranieri o arrivati qui da piccoli, che dovremmo far di tutto per integrare nella nostra società.

Difendere la democrazia e il benessere

Creare comunità grazie alla cura condivisa dei beni comuni è il miglior modo per essere cittadini ed è indispensabile sia per difendere la democrazia, sia il nostro benessere materiale.

La crisi infatti, impoverendo vaste aree della popolazione e creando incertezza per il futuro, alimenta il disprezzo per le istituzioni e le regole della democrazia rappresentativa, considerata non più in grado di dare risposte ai bisogni ed alle paure della società. Ai guasti provocati al tessuto democratico dalla crisi si aggiungono ora anche gli attacchi alla nostra stessa convivenza civile ed ai nostri valori da parte di criminali ideologizzati, che cercano di insinuare fra di noi la paura, il sospetto e la diffidenza reciproca. Tanto più, dunque, oggi è cruciale rivitalizzare il senso di appartenenza alla comunità attraverso esperienze concrete di partecipazione alla vita pubblica, come la cura condivisa dei beni comuni.

Al tempo stesso ciò consente di contrastare l’impoverimento dovuto alla diminuzione della disponibilità di beni privati, mantenendo una buona qualità della vita e garantendo il rispetto dei diritti di cittadinanza dei nostri concittadini in peggiori condizioni sociali ed economiche. Se la crisi fa diminuire la ricchezza privata bisogna investire sulla produzione, cura e rigenerazione dei beni comuni, anche per produrre quel capitale sociale che costituisce un fattore essenziale di sviluppo, anche economico.

Un cambiamento culturale profondo

Il Regolamento per l’amministrazione condivisa è una piccola cosa, rispetto ai problemi del Paese. Ma a volte sono le piccole cose che fanno la differenza, se sono in sintonia con i grandi cambiamenti nel modo di pensare di tante persone. E il Regolamento, ce ne siamo resi conto girando l’Italia in questi mesi, evidentemente è in sintonia con un cambiamento culturale profondo, che al momento riguarda una minoranza di cittadini, ma che potrebbe in tempi relativamente brevi diventare un fenomeno molto più ampio, liberando le infinite preziosissime energie nascoste nelle nostre comunità.

Un altro strumento fondamentale per la diffusione dell’amministrazione condivisa sarà, nei prossimi anni, la Scuola Italiana dei Beni Comuni (SIBEC) che Labsus ha fondato insieme con l’Università di Trento ed Euricse. Il suo scopo è formare due nuove tipologie di professionisti. Da un lato, funzionari comunali capaci di interagire con i cittadini attivi facilitandone le autonome iniziative per la cura dei beni comuni. Dall’altro, persone capace di gestire il recupero e poi la gestione, in maniera economicamente sostenibile, di beni pubblici abbandonati di cui una comunità si assume la responsabilità riconoscendoli come beni comuni.

Sovrani e responsabili, non supplenti

Insomma, la vicenda raccontata in questo Rapporto sembra dimostrare che molti italiani hanno capito che, come diciamo noi di Labsus: “Il tempo della delega è finito” e abbiano quindi deciso, in maniera del tutto autonoma, di assumersi la responsabilità della cura dei beni comuni materiali e immateriali dei luoghi in cui vivono.

Perché l’altro aspetto fondamentale di questo grande cambiamento culturale sta appunto nell’attivarsi autonomo di persone che non si sentono né si comportano come supplenti che rimediano ad inefficienze dell’amministrazione pubblica, bensì come cittadini che si riappropriano di ciò che è loro. Perciò lo fanno con entusiasmo, allegramente, approfittando dell’occasione per stare insieme con gli amici ed i vicini di casa, con quel gusto tutto italiano per la convivialità che è una delle nostre caratteristiche migliori.  E tutto questo non soltanto dà un contributo fondamentale alla rinascita del nostro Paese, ma è bellissimo in sé.

Gregorio Arena

Roma, dicembre 2015

Published by
Valerio Roberto Cavallucci