“Vi chiedo scusa. Mi dispiace papà, non ce la faccio proprio ad andare avanti. Di’ a Giacomo che lui sa quello che voglio dire. Di’ a Paolo che in fondo non c’entra niente. Di’ a mamma che lei è perfetta”. Con queste parole Giada, venticinquenne figlia adottiva, prende commiato dai suoi affetti, dalla madre Daria, dal padre Andrea, dal fratello Giacomo e dal fidanzato Paolo.
A partire dal suicidio di Giada si dipana la storia narrata da Michela Marzano, professoressa di filosofia morale all’Università Descartes di Parigi e, ormai, scrittrice a tutto tondo, nel suo ultimo romanzo, L’amore che mi resta, pubblicato per i tipi di Einaudi.
Un testo impegnativo, doloroso, in alcuni passi straziante e, al contempo, avvincente, serrato, con una concatenazione di eventi e rivelazioni da grande thriller.
Se dovessimo azzardare la scelta di un fil rouge che lega le diverse parti del romanzo potremmo indicare il tema dei segreti familiari. Eppure nella vita della famiglia Laurenti non c’è nulla di anomalo. O almeno così sembra, a prima vista. Una madre interamente dedita alla famiglia, un padre “intellettuale” realizzato nella docenza universitaria, una figlia brillante, creativa e un figlio ancora impegnato negli studi. Ma questa è solo la superficie, anzi, quella che Daria – la vera protagonista del romanzo – vorrebbe fosse la loro vita. Questo è ciò che è comodo credere. In realtà ci sono tanti piccoli segnali, mille “increspature” che segnalano dubbi, segreti, sofferenze. Se solo avesse posto più attenzione …, se solo avesse lasciato parlare i dubbi che serpeggiavano …, se solo non si fosse illusa che ogni difficoltà possa essere risolta dall’amore e che l’amore “aggiusta ogni cosa”.
L’amore che mi resta si sviluppa su due distinti piani narrativi. Da un lato la vicenda di Daria, nel suo percorso dall’abbandono totale a un dolore a cui “non si può sopravvivere” e che ti lascia con “gli occhi annuvolati, come se stessi raccogliendo la pioggia”, alla fallimentare esperienza del gruppo di auto-mutuo-aiuto, all’incontro con Cristiana, psicoterapeuta, che riesce ad aprire un varco nelle difese di Daria e, finalmente, ad aiutarla. “E mentre penso che il blu dei suoi occhi è un blu oceano, sento che le sue parole sono andate dritte al cuore, trafiggendolo”.
Su un piano distinto, ma costantemente intrecciato al primo, nel racconto di Daria si “svela” la vicenda di Giada. A partire dall’adozione, dal Centro di accoglienza per la prima infanzia (“dire brefotrofio è brutto”) quando Amelia diventa Giada, “il nome della pietra del quarto chakra”. Per proseguire con i piccoli segnali nascosti nelle domande di una bimba: “Mi sono sempre chiamata Giada?” oppure “Ma quando sei venuta a prendermi era perché volevi una bambina o perché mi volevi bene?”. Per giungere alla scoperta, del tutto inattesa, che la Giada venticinquenne da anni era alla ricerca delle proprie origini, della madre naturale. “Le mancava un pezzo della propria identità. Sa, è difficile integrare un abbandono all’interno della propria storia, persino con un percorso di analisi”, come rivela il dottor Graziano, psichiatra di Giada.
A questi livelli principali della narrazione si collegano numerosi “quadri” dedicati all’amato fratello Giacomo (“mi avevi promesso che ci saresti stata sempre. Perché mi hai abbandonato?”), al padre “letterato” Andrea (“non capisco questa fissazione per la psicanalisi, nei grandi romanzi c’è già tutto”) e al fidanzato timoroso Paolo (“avevo solo chiesto che cosa sarebbe potuto succedere se ci fossimo lasciati. Non doveva dirglielo”).
Daria, così, alla ricerca delle ragioni di Giada, cerca di districarsi tra i ricordi di silenzi e labili segni e la presenza ingombrante di documenti e racconti che mai avrebbe immaginato di scoprire. “Se non sono riuscita a capire che il problema era la vita, allora ho sbagliato dall’inizio alla fine”, confessa Daria a Cristiana. Non serve a nulla illudersi quando qualche traccia di dolore affiora: “Avevi tutta la vita davanti, Giada. Te lo dicevo sempre quando eri triste. Cioè, non proprio triste. Contratta, come rassegnata”. Non si resiste ai segreti, perché “i segreti avvelenano l’esistenza”. Non basta l’amore ad aggiustare ogni cosa. Anzi, ricorda Daria, “il mio errore è stato quello di pensare che il mio amore ti avrebbe salvata, esattamente come il tuo arrivo aveva salvato me”.
Alla fine resta solo la convinzione che “l’importante è accogliere. È questo l’amore. Che non ripara niente, ma accetta. Non basta mai, ma soccorre”. E non è poca cosa.