L’Arminuta di Donatella Di Pietrantonio (Einaudi 2017) è già un libro di successo. Diverse ristampe in poche settimane, stabilmente nei primi posti nelle classifiche di vendita della narrativa italiana. Ne sentiremo ancora parlare, forse in occasione di qualche prestigioso premio. Ma non è questo il motivo che ci spinge a consigliare questo breve romanzo ai lettori di Felicità Pubblica. Piuttosto ci interessa invitarli a seguire con attenzione e dedizione il percorso letterario di questa scrittrice di rara intensità.
L’Arminuta rappresenta la terza “fatica” della Di Pietrantonio. Nel 2011 Mia madre è un fiume, per i tipi di Elliot, il racconto del difficile rapporto tra figlia e madre sullo sfondo dell’Abruzzo interno, tra la guerra e i nostri giorni. Nel 2014 Bella mia, pubblicato dallo stesso editore, esplora la vicenda di una donna chiamata a prendersi cura del nipote adolescente dopo la tragica morte della sorella gemella nel terremoto dell’Aquila. L’Arminuta, a nostro avviso, non è soltanto il terzo romanzo in ordine di tempo della scrittrice abruzzese, ma la conclusione di una trilogia dedicata ad esplorare i più profondi legami familiari.
La trama si può riassumere in poche battute. Una ragazza di tredici anni da un giorno all’altro, senza apparente ragione, viene allontanata dalla famiglia che l’ha cresciuta per “tornare” dai suoi genitori biologici e dai suoi fratelli, sino ad allora ignorati. La sua vita, in pochi attimi, viene stravolta; dall’agiatezza piccolo borghese di una città costiera alla “miseria” di una realtà rurale arretrata, da una casa ampia e ordinata a uno spazio piccolo e povero dove vivere in promiscuità, dalla certezza del presente al buio profondo su origini e futuro. Una protagonista senza nome, solo un appellativo: “Ero l’Arminuta, la ritornata. Parlavo un’altra lingua e non sapevo più a chi appartenere”.
Ma soprattutto irrompe l’urgenza di trovare risposte a domande che non possono essere poste ad alcun interlocutore. Perché non posso più vivere nella famiglia in cui sono cresciuta? Cosa ho fatto di così grave per essere allontanata? Nello stesso tempo la “nuova vita” impone la ricerca di un equilibrio inedito, a contatto con persone, stili di vita, relazioni del tutto sconosciuti. E così, agli interrogativi si affiancano scoperte e incontri sorprendenti. La narrazione sembra correre su binari paralleli. Da un lato la ricerca delle ragioni e delle circostanze all’origine del “rifiuto” segnano l’intero percorso narrativo, con la forza e la tensione di un thriller. Dall’altro l’urgenza della vita spinge, nonostante tutto, ad aprirsi al nuovo mondo, ad accettare incontri e relazioni, a scoprire quanto di buono possa celarsi dietro un apparente “degrado”.
Il romanzo si dipana nella descrizione delle relazioni della protagonista con vecchi e nuovi familiari. Tra tutti, la sorella minore, Adriana, ruvida e accogliente, ignorante e saggia, bambina e adulta, l’altra faccia della protagonista, il suo complemento. “Da lei ho appreso la resistenza. Ora ci somigliamo meno nei tratti, ma è lo stesso il senso che troviamo in questo essere nel mondo. Nella complicità ci siamo salvate”. E poi, il fratello più grande, Vincenzo, piccolo tragico “eroe”, irrequieto, ribelle, amico di zingari giostrai, ma soprattutto colui che la guarda come fosse già donna, dimenticando “chi eravamo”.
Al centro della narrazione il tema del rapporto con la madre. Donatella Di Pietrantonio in un recente incontro ha affermato: “la madre è il mio nodo, il mio tema, il mio demone”. La maternità è l’altra faccia dell’identità. Una questione decisiva se, come sostiene Michela Murgia, “non sappiamo chi siamo se prima non sappiamo di chi siamo”. Di chi si è figli? Di chi ci ha generato o di chi ci ha cresciuto? Alla protagonista, “orfana di due madri viventi”, “la parola mamma si era annidata nella mia gola come un rospo”, era divenuta impronunciabile. Ma non può fare a meno di “inseguire” le sue due madri, quella del paese – dura, silenziosa, respingente ma, a tratti, insospettabilmente attenta e amorevole – e l’altra, quella che l’ha cresciuta, dapprima scomparsa nel mistero e poi riapparsa, irrisolta e fragile, alla ricerca del perdono della figlia.
Come negli altri romanzi della Di Pietrantonio il linguaggio è asciutto, preciso, incisivo. Prendendo a prestito l’espressione di un commento sul web, “non c’è una parola di troppo”. Molto efficace l’uso di un dialetto sempre comprensibile, “stilizzato”, fedele al suono e al ritmo, scevro da ogni tecnicismo.
Infine una considerazione sull’Abruzzo interno, scenario e protagonista di larga parte della storia. La terra d’origine non può mancare o essere dissimulata in una narrazione sull’identità. Ma questa terra rappresenta l’archetipo, l’origine, la sorgente da cui tutto prende vita, il punto di partenza del cammino; e così, poco conta che si parli di Abruzzo interno o di valli bergamasche. D’altro canto, al netto di molti fraintendimenti che hanno restituito una rappresentazione caricaturale dell’Abruzzo, è così in D’Annunzio, è così in Silone, è così nella pittura di Francesco Paolo Michetti.