Le diseguaglianze hanno assunto dimensioni estreme. Oxfam ha fornito dati aggiornati pochi giorni prima del Forum economico mondiale di Davos.
“L’82% dell’incremento di ricchezza netta registratosi tra marzo 2016 e marzo 2017 è andato all’1% più ricco della popolazione globale, mentre a 3,7 miliardi di persone che costituiscono la metà più povera del mondo non è arrivato un solo centesimo”. E in Italia? “A metà 2017 il 20% più ricco degli italiani deteneva oltre il 66% della ricchezza nazionale netta, il successivo 20% ne controllava il 18,8%, lasciando al 60% più povero appena il 14,8% della ricchezza nazionale. La quota di ricchezza dell’1% più ricco degli italiani superava di 240 volte quella detenuta complessivamente dal 20% più povero della popolazione. Nel periodo 2006-2016 la quota di reddito nazionale disponibile lordo del 10% più povero degli italiani è diminuita del 28%, mentre oltre il 40% dell’incremento di reddito complessivo registrato nello stesso periodo è fluito verso il 20% dei percettori di reddito più elevato. Nel 2016 l’Italia occupava la ventesima posizione su 28 Paesi Ue per la disuguaglianza di reddito disponibile”.
Eppure quasi nessuno se ne cura. Le diseguaglianze a scala planetaria sembrano troppo lontane per preoccupare davvero. Tanti si lamentano degli “inarrestabili” flussi migratori, affidandosi sempre più a politiche restrittive e repressive. Pochi si soffermano sulla strettissima relazione che intercorre tra polarizzazione della ricchezza, carestie e povertà diffuse, migrazioni imponenti.
E le diseguaglianze “domestiche”? Silenzio quasi totale da parte delle forze politiche, rimozione collettiva del problema. Eppure il tema dovrebbe essere al centro della campagna elettorale e invece no. Solo qualche citazione così generica da risultare irritante. Sarebbe meglio una dignitosa assenza. Eppure la questione dovrebbe essere assolutamente prioritaria.
In realtà le diseguaglianze ci sono sempre state, non sono certo una novità. Ma nel passato erano senza dubbio più limitate e, soprattutto, venivano percepite dalla collettività come una vergogna, un vulnus da sanare. Sarà anche stato un approccio farisaico, ma nessuno se ne sarebbe vantato e tutti avrebbero associato il concetto di diseguaglianza con quello di ingiustizia sociale. Oggi la forbice si allarga ma, per paradosso, la consapevolezza si riduce. Al momento le diseguaglianze nel migliore dei casi si ignorano, nel peggiore si esibiscono perché non costituiscono un problema. I più attenti si interrogano sull’estensione abnorme dell’area della povertà, sugli strumenti più efficaci senza considerare che “nella coda inferiore della distribuzione dei redditi la diseguaglianza si trasforma in povertà”.
E così il tema circola sotto traccia, preso in carico da qualche gruppo di economisti, da qualche organizzazione non governativa, da qualche minoranza nelle forze politiche. Tra i contributi più interessanti va ricordato il Manifesto “Contro la disuguaglianza: come e perché”, elaborato dalle Associazioni Nuova economia Nuova società e Etica economia. La presentazione è di qualche mese addietro, ma i contenuti sono di sicura attualità.
Come affermano gli autori (Maurizio Franzini, Elena Granaglia, Ruggero Paladini, Andrea Pezzoli, Michele Raitano, Vincenzo Visco) “negli ultimi 30 anni si è verificato un enorme spostamento di reddito dai salari ai profitti e alle rendite (un tempo si sarebbe detto dal lavoro al capitale): intorno ai 15 punti di Pil; all’interno dei redditi di lavoro, lo spostamento è stato dalle classi medie, dagli operari e dagli impiegati verso i dirigenti, i manager e i professionisti; i rentiers hanno visto migliorare dovunque la loro posizione. Inoltre, la disoccupazione è diventata un problema sempre più difficile da gestire: le economie, anche per la debolezza degli investimenti, rischiano la stagnazione e hanno bisogno di stimoli artificiali basati sull’indebitamento per funzionare, ma questo crea problemi di stabilità finanziaria e accresce il rischio di crisi e recessioni che riversano i loro effetti negativi soprattutto sui lavoratori, sulle classi medie e sui giovani”.
Ma, se questi sono i fatti, come ha potuto aver luogo questa gigantesca operazione di rimozione del problema? Intanto attraverso la diffusione di alcune colpevoli “mezze verità”. La prima: l’obiettivo da perseguire non è l’uguaglianza dei redditi ma quella delle opportunità. Forse, ma siamo davvero in grado di garantire una reale eguaglianza dei punti di partenza tra gli individui? La seconda: le diseguaglianze stimolano la crescita economica. Ne siamo proprio certi? Non accade spesso l’esatto contrario, cioè che le diseguaglianze frenano o pregiudicano la crescita economica? La terza: le diseguaglianze sono provocate dal progresso tecnologico e dalla globalizzazione contro i quali la politica è disarmata. Ci sono davvero molti dubbi sia sulla prima sia sulla seconda parte dell’affermazione.
In fondo il meccanismo è sempre lo stesso: nascondere dietro una presenta ineluttabilità, dovuta a ferree leggi naturali, un processo storico che ha precise responsabilità. Non è così, le diseguaglianze si possono contrastare, si possono mettere in atto politiche orientate a ridurre le distanze operando con gli strumenti della politica e dell’economia. Ma questo è argomento su cui tornare in un successivo appuntamento.