Secondo intervento dedicato alla ricerca «L’innovazione sociale e i Comuni – Istruzioni per l’uso» realizzata dall’Ufficio studi e ricerche dell’Anci nell’ambito di una convenzione tra Agenzia nazionale per i giovani, Anci e Fondazione Ifel. La settimana scorsa abbiamo visto come i Comuni siano stati protagonisti del tentativo della Social Innovation di rispondere ai nuovi bisogni che non trovano spazio nelle tradizionali politiche sociali.
Se in un primo periodo i Comuni hanno soprattutto fornito supporto tecnico e organizzativo prevalentemente ai soggetti del Terzo settore, nel corso del tempo il loro ruolo è progressivamente cresciuto. Infatti “il tema dell’innovazione sociale e i suoi protagonisti rientrano in una cornice più ampia, che include anche le politiche del lavoro, le politiche sociali e le politiche urbane e che riporta al centro del nuovo schema d’azione gli enti con le proprie specifiche competenze istituzionali”.
Oggi proponiamo le cosiddette “Istruzioni per l’uso”, ovvero “alcune raccomandazioni avanzate ai comuni da esperti, innovatori, coworker, dirigenti, startupper, accademici, politici, ecc., coinvolti nell’indagine”, formulate sulla base di un’unica domanda: “qual è il ruolo dei comuni e cosa possono fare per e con l’innovazione sociale?”. Di seguito la rielaborazione dei principali suggerimenti, a partire da una considerazione condivisa: i comuni possono coordinare, facilitare, sostenere i processi di innovazione sociale, ma debbono star bene attenti a non “schiacciarne le potenzialità”.
Il Comune può svolgere un importante lavoro di tessitura con le reti degli attori che sul territorio si candidano per avere un ruolo nei processi di innovazione. Questa tessitura può servire al Comune per:
Si tratta di identificare un insieme aperto di realtà organizzative di natura varia che svolgono una funzione attiva nei diversi quartieri, su tutta la città o a livello nazionale. Gli strumenti per l’individuazione, la mappatura e la legittimazione possono essere vari:
La conoscenza reciproca, la mappatura e le nuove relazioni producono diversi vantaggi. Per il comune è:
Per i city makers far parte di una rete cittadina è:
Mangiare, abitare, lavorare, muoversi, partecipare sono bisogni comuni che raccolgono una buona parte delle politiche urbane e delle pratiche d’innovazione sociale.
La particolarità di queste pratiche è data dal fatto che riguardano attori che hanno natura diversa (privati, associazioni, no profit, …), nascono in realtà socio-culturali-economiche diverse, sparigliano, perché in alcuni casi fanno ‘cose vecchie con il vestito nuovo’ e in altri invece inventano proprio delle grosse novità. La presenza di queste pratiche è interessante per l’effetto che generano: apertura, inclusività, creazione, creatività, confronto, sostenibilità.
La loro qualità dipende dalla possibilità di contaminazione, di confronto, di sviluppo ed è per questo che un ruolo possibile e utile che il comune può giocare nell’ecosistema è di creare spazi ed occasioni di connessione.
Il Comune può fare in modo che la città diventi il luogo della conoscenza, dello scambio e della collaborazione: i luoghi e le situazioni nelle quali le persone crescono, lavorano, si incontrano, studiano, ecc. sono generativi di nuove occasioni (anche individuali) e della nascita di nuove conoscenze e apprendimenti. Per questo il Comune, come istituzione di prossimità, ha un ruolo importante anche nel contribuire a mettere a sistema questi soggetti, instaurando un clima di fiducia e collaborazione che favorisca lo scambio d’informazioni e conoscenze, consentendo anche a soggetti distanti di potersi incontrare.
Concretamente questo ruolo può essere svolto con interventi di tipo materiale, per esempio mettendo a disposizione degli spazi fisici della città e con interventi di tipo immateriale attraverso sistemi che colleghino e valorizzino le pratiche e le esperienze importanti per la città. Da questo punto di vista gli esempi di Milano, Torino e anche della Puglia sono molto interessanti: i portali, gli eventi, le forme di collaborazione, gli spazi messi a disposizione, svolgono una funzione di catalizzatori e si fanno piattaforma sulla quale cresce e si diffonde il cambiamento e il senso della possibilità. Inoltre, è la connessione tra istituzioni che può generare ancora più propulsione al sistema e fare da acceleratore all’interno dell’ecosistema.
La diffusa inadeguatezza delle competenze interne alle amministrazioni locali rappresenta un limite forte all’idea di città come regia dei processi d’innovazione territoriale, come hub, come soggetto che mette a punto politiche e interventi capaci di abilitare l’innovazione e fare rete tra le diverse “comunità del cambiamento”.
Le competenze di cui si discute non sono solo quelle che servono per migliorare i livelli di funzionamento e l’efficacia dell’operare dell’amministrazione ma anche – e soprattutto – le capacità e le attitudini necessarie ad immaginare, sperimentare ed introdurre nuovi modelli operativi capaci di superare e sovvertire l’approccio, ancora prevalente, di natura burocratica e verticale. Appare necessario lavorare su 3 livelli: quello politico, quello della formazione al personale e l’immissione di nuove figure e nuovi profili professionali.
Per lavorare sulle competenze del personale interno ci sono molti contenuti e molti metodi innovativi che compongono un vero e proprio ecosistema professionale e che consentono alle persone che fanno parte delle amministrazioni di acquisire informazioni, di aggiornarsi, di intercettare le novità del loro settore e di ciò che riguarda, più in generale, i processi innovativi in corso nel sistema sociale, economico e culturale e che, quindi, per forza, hanno a che fare con i diritti, le decisioni, i servizi e le occasioni che un’amministrazione può o deve presidiare.
Tra le tante esperienze è interessante quella dei Digital acceleration team che sono gruppi di esperti che affiancano i dipendenti per accelerare l’acquisizione di nuove competenze digitali. La compresenza di gruppi di esperti facilita e rende più rapido l’apprendimento che avviene direttamente sul lavoro. Un esempio interessante si sta sperimentando al Comune di Lecce, dove è stato creato un ufficio interno composto da 2 persone di ogni settore; si chiama Gruppo TODO. Queste persone 1 o 2 volte la settimana vengono distaccate e lavorano, affiancati da un esperto, sull’apertura dei dati del comune. Si realizza, in questo modo, una formazione continua all’open gov attraverso una guida tecnica e attraverso una stretta collaborazione tra colleghi, favorita dalla compresenza all’interno di uno spazio di co-working.
L’integrazione delle competenze già presenti nelle amministrazioni locali può derivare anche dalla creazione di partnership strategiche con i city makers che sono portatori di saperi complessi e quindi possono aggiungere, al lavoro dei dipendenti pubblici: flessibilità, capacità di sperimentazione, attenzione agli effetti delle azioni messe in campo, co-responsabilità, oltre a saperi specifici.
Essere piattaforma abilitante significa agire da abilitanti di capacità, competenze, relazioni, energie, passioni, saperi, …
E’ quello che molto concretamente hanno fatto gli enti pubblici che sono entrati a far parte di questa ricerca (Regione Puglia, Comune di Milano e Comune di Torino) ma anche quello che stanno facendo molti altri Comuni per esempio lavorando sulle politiche giovanili o d’innovazione della città.
Il Comune può esercitare la funzione abilitante in varie forme:
Il comune, inoltre, ha la facoltà di abilitare anche attraverso interventi puntuali su alcuni blocchi del sistema a partire dalle proprie rigidità interne e dalla burocrazia che spesso limita invece di favorire azioni e innovazione.
Accettare il paradigma della social innovation apre alla possibilità di rivedere alcune regole e alcune procedure:
La funzione regolatoria e quella procedimentale sono le funzioni centrali dell’attività comunale e, spesso, norme e procedure invece di essere favorevoli al cambiamento lo limitano, lo imbrigliano, lo rallentano. Gli interventi del comune in questa direzione sono vari e si stanno dimostrando di grande utilità. Le vie possibili sono diverse:
La città che decide di scommettere sulla social innovation lo può fare per diverse ragioni: per innovare le pratiche di governo; per rilanciare l’economia locale; per migliorare la qualità della vita dei propri cittadini; per sostenere e implementare l’innovazione nei servizi; per favorire l’autonoma iniziativa dei cittadini sulla base dei principi di sussidiarietà e della partecipazione. Quale che sia la ragione, o la visione, che spinge un’amministrazione locale a investire su iniziative di cittadinanza attiva, imprese sociali, organizzazioni di terzo settore, start up innovative, o aziende responsabili, è centrale che il Comune sposti – anche sul piano finanziario – il suo campo d’azione.
Deve cioè spostare il suo impegno dal supporto/finanziamento del livello micro delle singole esperienze, a quello sistemico delle politiche ragionando come driver di un sistema e agendo come hub finanziario. Bene descrive questo cambio di passo la Città di Milano nel suo Libro bianco sull’innovazione sociale: “L’applicazione di questo nuovo approccio implica anche un cambio nelle modalità di finanziamento, in quanto l’Amministrazione comunale dovrebbe catalizzare le risorse a disposizione sul rafforzamento di questa logica di collaborazione e co-progettazione. Inoltre, vista la scarsità di risorse economiche a disposizione, l’azione di supporto a cui è chiamata l’Amministrazione comunale riguarda anche il riuscire a intercettare le risorse da investire sull’ecosistema locale”.
Per far questo l’ente locale ha più strumenti:
Attrazione di risorse private: definire accordi e strategie con Fondazioni bancarie, grandi imprese, banche, investitori; creazione di fondi di fondi e di altri strumenti, come i fondi di garanzia, che mitighino il rischio per gli investitori; sviluppare sistemi di crowdfunding civico.
Uso strategico di risorse proprie: oltre alla leva dell’alleggerimento fiscale e la semplificazione delle procedure di accesso ai bandi, un altro capitolo interessante riguarda la sperimentazione di meccanismi di recupero di risorse pubbliche risparmiate grazie allo sviluppo di social business (per minori esternalità negative o maggiori esternalità positive) ed il loro reimpiego in soluzioni ad alto impatto sociale il cui modello di business prevede un investimento iniziale per i comuni. Molte esperienze interessanti si riscontrano anche in riferimento al ricorso a “premi” o a incentivi per chi si fa parte attiva nelle iniziative di innovazione sociale (punti civici, ecc.), da un lato, e vaucher spendibili per chi ne usa i servizi.
Il procurement pubblico: attraverso le nuove forme di public procurement il Comune può scegliere di allocare la spesa attuale dando peso e spazio ai soggetti che si occupano di innovazione sociale
Risorse pubbliche europee e nazionali: l’amministrazione comunale può farsi promotrice per il territorio di iniziative di social innovation presentando proposte sui fondi strutturali europei e nazionali e, allo stesso tempo può svolgere un ruolo di “supporto tecnico” per i soggetti interessati a partecipare a bandi europei sui programmi e sulle iniziative a supporto dell’innovazione sociale.
Per molti degli innovatori intervistati un’importante spinta ai progetti di social innovation potrebbe venire dal riconoscimento di una riduzione dei canoni e dei tributi locali e delle eventuali spese burocratiche.
Sul piano normativo la legge n. 164/2014, anche nota alle cronache come “sblocca italia”, ha introdotto (all’art. 24) l’istituto giuridico del “baratto amministrativo”, funzionale, per stessa definizione legislativa, alla partecipazione della comunità locale nella valorizzazione e tutela del territorio.
La norma consente ai comuni di affidare – con apposita delibera – a cittadini (singoli o associati) determinati interventi aventi ad oggetto la cura di aree ed edifici pubblici, beneficiando di alcuni sgravi fiscali inerenti alle attività da essi realizzate.
Quali interventi? Gli interventi possono riguardare la pulizia, la manutenzione, l’abbellimento di aree verdi, piazze, strade ovvero interventi di decoro urbano, di recupero e riuso, con finalità di interesse generale, di aree e beni immobili inutilizzati, e in genere la valorizzazione di una limitata zona del territorio urbano o extraurbano.
Quali tributi possono essere ridotti? I comuni possono deliberare riduzioni o esenzioni di quei tributi che sono inerenti al tipo di attività posta in essere.
Per quanto tempo? Periodo limitato e definito. Perché? Per attività individuate dai comuni, in ragione dell’esercizio sussidiario dell’attività posta in essere. A chi? Prioritariamente a comunità di cittadini costituite in forme associative stabili e giuridicamente riconosciute.
Tuttavia, è necessario ricordare che la soluzione prevista nel baratto non è obbligata. Il Comune potrebbe pagare il servizio (a cui riconosce un valore sociale) anche in altro modo; può trovarsi nella situazione di ricorrervi per iniziative di sussidiarietà da parte di cittadini attivi a causa della carenza di fondi comunali, o può invece guardare al “baratto amministrativo” dalla prospettiva dell’innovazione sociale intesa come politica trasversale. In quest’ultima opzione si può sostenere che questo strumento avrà un effetto di promozione e co-responsabilizzazione incisivo.
Non basta più il modello del “vedo e provvedo” e non è neppure sufficiente un’attività di ascolto e di partecipazione nominale alle decisioni (come abbiamo visto fare negli anni ‘90): nel nuovo modello bisogna chiedere agli attori del territorio (anche ai nuovi) cosa stiano facendo e che tipo di supporto serva. Il nuovo modello è quello della co-produzione e della co-responsabilità.
Con le parole di Ezio Manzini (esperto internazionale di design della sostenibilità e dell’innovazione sociale): “… in un mondo in rapida e profonda trasformazione, tutti progettano. Dove “tutti” significa le singole persone, i gruppi, le comunità, le imprese le associazioni, ma anche le istituzioni, le città e intere regioni. E “progettano” significa che tutti questi soggetti individuali e collettivi, volenti o nolenti, sono spinti a mettere in campo delle capacità progettuali per definire e realizzare le loro strategie di vita. Il risultato di questo design diffuso è che tutta la società può essere vista come un grande laboratorio in cui si producono forme sociali, soluzioni e significati inediti. In cui si crea cioè innovazione sociale.” Queste dinamiche non generano necessariamente e solamente effetti positivi ma da queste dinamiche sorgono esperienze importanti per la sostenibilità sociale, ambientale, economica, ecc.
L’innovazione sociale è generata da co-progettazione, ibridazione, multidisciplinarietà e compresenza di attori diversi.
Negli ultimi anni l’enfasi dell’amministrazione pubblica aperta è stata data all’ascolto, alla trasparenza, alla comunicazione ma appare chiaro che si tratta di occasioni asimmetriche dove le amministrazioni e i cittadini non condividono alla pari le loro risorse di tempo, idee, fiducia. Il passaggio al co-design e alla co-progettazione è anche questo: un modo di dare fiducia al sistema dei city makers, delle organizzazioni e dei cittadini che assumo un ruolo attivo, creativo e di co-responsabilità (entro i limiti dei ruoli e delle funzioni riconosciuti ad ognuno).
Ampliare l’innovazione sociale e il suo impatto significa favorire la presenza di city makers o diffondere queste pratiche dal punto di vista territoriale. Per sostenere la scalabilità dell’innovazione sociale il comune può agire sull’ecosistema locale anzitutto supportando lo sviluppo e il confronto tra gli attori quindi facendo sistema.
Questo è prima di tutto un modo per favorire gli scambi e le interazioni tra i diversi attori, ma è anche una situazione che fa crescere idee e nuove ispirazioni per gli attori tradizionali del sistema e ne attiva il cambiamento.
È centrale favorire sistemi di fiducia e collaborazione che sono motori propulsori di queste relazioni generative.
“La presenza di un’elevata fiducia di sistema, condivisa tra tutti gli operatori e in grado di influenzare positiva mente fin da subito le aspettative individuali, svolge un ruolo importante a supporto dell’innovazione sociale, soprattutto laddove occorre coinvolgere soggetti appartenenti a realtà tra loro distanti (e non di rado caratterizzate da un certo grado di distanza culturale) nella gestione dei beni comuni e nelle esperienze di innovazione sociale basate sui principi dello sharing o del pooling” (Libro Bianco di Milano sull’innovazione sociale, pag.33).
Altro elemento centrale che favorisce la scalabilità dell’innovazione sociale è l’apertura di questo paradigma da parte di più policy locali: periferie, riqualificazione di spazi pubblici, mobilità, sociale, food, abitare, educazione, giovani.
Il ruolo che, tanto gli innovatori quanto gli enti coinvolti nelle diverse fasi del lavoro di ricerca condotto, riconoscono al comune è quello della “regia” dei diversi processi che possono essere generati dall’innovazione sociale. Essere registi del cambiamento per un’amministrazione locale vuol dire:
In questo processo, i pubblici amministratori devono accettare di perdere un po’ del potere che deriva dal gestire direttamente determinate risorse ed iniziare ad assumersi il rischio di abilitare soggetti terzi, imparando ad intercettare e coinvolgere quelli più “interessanti” (che potrebbero non essere interessati a collaborare) e mettendo a punto gli incentivi e gli strumenti più adatti per orientarne e facilitarne l’azione.
Alle amministrazioni è anche richiesto uno sforzo di revisione dei propri strumenti di programmazione, in primo luogo i Piani Strategici che ben si prestano ad essere ripensati come strumenti dinamici, adattivi e agili perché il cambiamento è veloce. Il Piano Strategico può essere uno strumento abilitante per l’innovazione territoriale se non ci si danno obiettivi velleitari quanto, piuttosto, se si guarda a traguardi lunghi e condivisi di sviluppo territoriale identificando azioni concrete “a breve scadenza”. Sono queste che dovranno essere formalizzate in maniera fluida e con un approccio che è stato definito: error friendly.
Nel processo di supporto all’innovazione sociale il comune svolge un ruolo determinante: finanziatore, beneficiario, alleato, cliente, garante e facilitatore. Lo fa con l’obiettivo di innovare e migliorare le politiche e per alzare il livello della qualità dei servizi e del benessere urbano. E lo fa in regime di risorse scarse. Questo obbliga l’amministrazione a conoscere l’impatto delle proprie scelte sia in termini di efficienza, vale a dire dal punto di vista dell’allocazione delle risorse, sia in termini di efficacia, ossia guardando il livello di raggiungimento di obiettivi strategici al di là della logica economico-finanziaria.
L’introduzione di sistemi di metrica per la misurabilità dell’impatto sociale è un passaggio imprescindibile per tutelare un buon utilizzo delle risorse pubbliche e “impermeabilizzare” le scelte strategiche dell’ente dalle retoriche taumaturgiche che troppo spesso hanno portato a passioni “voraci e fugaci” per paradigmi di innovazione, abbandonati ancor prima di sperimentarne il potenziale.
A livello nazionale e internazionale, la misurazione dell’impatto sociale è stata studiata prevalentemente da un punto di vista di processo, mentre meno enfasi è stata posta sulla definizione del concetto stesso d’impatto sociale, stentando quindi a sviluppare un linguaggio comune univocamente definito e generalmente condiviso (OECD, 2015). Tuttavia, se un certo grado di convergenza è osservabile rispetto alle definizioni dei processi di misurazione, vi è ancora molta strada da percorrere per quanto riguarda la definizione di pratiche condivise di misurazione, la cui applicazione varia contestualmente a fattori settoriali e strumentali. Gli approcci operativi alla misurazione sono molti, non fosse altro che le necessità di misurare l’impatto sociale prendono connotazioni molto diverse a seconda delle diverse esigenze del soggetto che le implementa (impresa sociale, gestore del fondo, finanziatore, investitore, organizzazioni di cittadinanza, istituzione pubblica, ecc.)
In questo contesto, ed in questa fase di maturazione dei sistemi di metriche, ciò che il comune può fare sul fronte della valutazione è: definizione di un sistema di consultazione degli enti accademici, il terzo settore e degli altri soggetti coinvolti, sperimentazione e scambio pratiche con altre amministrazioni, promozione e diffusione delle pratiche di misurazione, inserimento nei bandi di sistemi di valutazione dell’impatto sociale.