In una recente serie di articoli dedicati al contrasto alla violenza di genere abbiamo preso impegno a “continuare a parlare di violenza sulle donne, sempre, senza stancarci mai”.
Oggi torniamo a farlo proponendo il testo integrale dell’appello pubblicato martedì 9 gennaio su Le Monde dall’attrice Cathèrine Deneuve e altre cento donne, nella traduzione proposta da Il Foglio.
Perché farlo? Non è stato citato a sufficienza dai media italiani? Anzi, molti si sono espressi, la maggior parte manifestando sdegno e contrarietà. Per costoro le firmatarie dell’appello riporterebbero indietro le lancette dell’orologio, fornirebbero un inatteso e quanto mai inopportuno sostegno al maschilismo e al machismo, banalizzerebbero lo sforzo delle centinaia di donne che negli ultimi mesi, coraggiosamente, hanno deciso di denunciare le violenze subite. In definitiva, un appello ambiguo nei contenuti e totalmente inopportuno nei tempi.
Tuttavia, una parte dei commentatori ha espresso pieno consenso alle tesi della Deneuve, tradendo un senso di liberazione, come se l’appello delle donne francesi avesse certificato, sempre dovunque e comunque, la “libertà di importunare”.
Abbiamo deciso di pubblicare l’appello perché abbiamo avuto la spiacevole sensazione che né i primi né i secondi abbiano dedicato grande attenzione al testo. In qualche caso siamo convinti che non l’abbiano proprio letto e si siano limitati a commentare qualche citazione sparsa.
In primo luogo sgomberiamo il campo da qualche elemento di confusione. Nell’appello la condanna della violenza di genere è netta e inequivocabile (e ci mancherebbe altro). Ma altrettanto chiara è la condanna dell’abuso di potere che l’uomo esercita, soprattutto in contesti professionali, molestando le donne. Su questi aspetti, francamente, non mi sembra ci siano ambiguità.
In più l’appello interroga – utilmente – sui paradossi del “politicamente corretto”. Vietare, regolamentare, normare, imporre stili di comportamento: si rischia così di costruire un mondo artefatto, inevitabilmente formale e superficiale, dove le relazioni vengono interpretate secondo copione piuttosto che vissute.
La seconda questione riguarda la natura e le caratteristiche della pulsione sessuale e, più in generale, delle relazioni tra i sessi. Con linguaggio provocatorio le donne francesi sostengono che “siamo oggi sufficientemente avvertite per ammettere che la pulsione sessuale è per natura offensiva e selvaggia”. Con altre parole e riferendoci alle relazioni amorose qualche mese fa abbiamo scritto: “Non c’è relazione senza conflitti, non c’è relazione amorosa senza “scontro”. L’amore non ha nulla a che fare con quel sentimentalismo mieloso di cui si chiacchiera sui rotocalchi. L’amore – la relazione più profonda e sconvolgente – è confronto, dialettica, lotta, affermazione di identità forti, nell’assoluto rispetto reciproco”.
L’ultima questione riguarda il “peso delle cose”. Non si possono mettere sullo stesso piano lo stupro e la violenza con il corteggiamento insistente, con le avance, con “il rimorchio imbarazzante”. Questi ultimi atteggiamenti sono certamente deprecabili e fastidiosi ma le donne sanno sempre come rispondere, come gestire le situazioni. Come si legge nell’appello la donna “può anche immaginare un comportamento del genere come l’espressione di una grande miseria sessuale, o comunque come un non-avvenimento”. Altra cosa sono i ricatti, la violenza, lo stupro. Non distinguere questioni diverse annega tutto in una confusa condanna che non affronta i problemi.
In definitiva seppure l’appello delle donne francesi non convince del tutto, certamente interroga sulla validità di stili di comportamento “politicamente corretti” che poco hanno a che fare con la vita reale e con il rispetto profondo delle persone.
Ha ragione Lea Melandri quando afferma che “purtroppo il politicamente corretto è diventata la via più semplice, la scorciatoia che ti inchioda alla superficialità”. E ancora “quel che finora è mancato — sia nella denuncia delle donne che nell’autodenuncia maschile — è la riflessione sulla complessità e sull’ambiguità del rapporto tra uomini e donne: una relazione che intreccia perversamente vita privata, violenza e potere. Ed è scandaloso lo scarto esistente tra la furia con cui giornali e tv inseguono l’autocoscienza delle star e il silenzio su argomenti che pure impegnano nuove generazioni di donne e di uomini. È nel lavoro collettivo che si fonda la politica, non in queste campagne social destinate a passare senza lasciare il segno”.
P.S. Leggo ora che Cathèrine Deneuve è intervenuta su Liberation (14 gennaio) per precisare la sua posizione. Dopo la valanga di critiche subite l’attrice afferma: “Voglio abbracciare calorosamente tutte le vittime di questi ignobili atti che possano essersi sentite attaccate da quella lettera apparsa su Le Monde. È a loro e solo a loro che porgo le mie scuse”. Nessun passo indietro, quindi, solo un apprezzabile chiarimento e qualche battuta polemica all’indirizzo di una delle firmatarie che nei giorni scorsi ha rilasciato dichiarazioni che non meritano neppure di essere prese in considerazione.
Lo stupro è un crimine. Ma rimorchiare in maniera insistente o imbarazzante non è un delitto, né la galanteria un’aggressione machista. Dopo l’affaire Weinstein c’è stata una legittima presa di coscienza delle violenze sessuali esercitate sulle donne, specialmente nell’ambiente professionale, dove alcuni uomini abusano del loro potere. Era necessaria. Ma questa liberazione della parola si è trasformata oggi nel suo contrario: ci dicono che bisogna parlare in un certo modo, di tacere su ciò che può urtare, e le donne che rifiutano di piegarsi a queste regole sono guardate come delle traditrici, delle complici! Ora, è proprio del puritanesimo prendere in prestito, in nome di un preteso bene generale, l’argomento della protezione delle donne e della loro emancipazione per incatenarle meglio a uno statuto di vittime eterne, di povere piccole cose in balia di demoni fallocratici, come ai bei vecchi tempi della stregoneria.
Di fatto, #MeToo ha dato vita nella stampa e sui social network a una campagna di delazioni e di messa in stato d’accusa pubblica di individui che, senza che gli sia lasciata la possibilità né di rispondere né di difendersi, sono stati messi esattamente sullo stesso piano di aggressori sessuali. Questa giustizia sommaria ha già fatto le sue vittime, gli uomini sanzionati nell’esercizio del loro mestiere, costretti alle dimissioni, eccetera. Il loro solo torto è aver toccato un ginocchio, rubato un bacio, parlato di cose “intime” durante una cena professionale e inviato dei messaggi a connotazione sessuale a una donna che non era reciprocamente attratta. Questa corsa a inviare i “porci” al mattatoio, al posto di aiutare le donne a diventare autonome, fa il gioco in realtà dei nemici della libertà sessuale, degli estremisti religiosi, dei peggiori reazionari che credono, in nome di una concezione vittoriana del bene e della morale, che le donne siano degli esseri “a parte”, delle bambine col viso da adulte che reclamano di essere protette. Di fronte a loro gli uomini sono costretti a mostrare la loro colpa e dissotterrare, andando al fondo della loro coscienza retrospettiva, un “comportamento oltremisura” che avrebbero potuto tenere dieci, venti o trent’anni fa, e pentirsene. La confessione pubblica, l’incursione di procuratori autoproclamati nella sfera privata, installa un clima da società totalitaria.
L’ondata purificatrice non sembra conoscere alcun limite. Da una parte si censura un nudo di Egon Schiele su una pubblicità, dall’altra si chiede il ritiro di un dipinto di Balthus da un museo perché costituirebbe un’apologia della pedofilia. Confondendo l’uomo e l’opera, si chiede il divieto della retrospettiva di Roman Polanski alla Cinémathèque e si ottiene il rinvio di quella consacrata a Jean-Claude Brisseau. Un’universitaria giudica il film “Blow-Up” di Michelangelo Antonioni, “misogino” e “inaccettabile”. Alla luce di questo revisionismo, John Ford (“La prigioniera del deserto”) e anche Nicolas Poussin (“Il ratto delle sabine”) iniziano ad avere paura.
Alcuni editori chiedono ad alcune di noi di rendere i nostri personaggi maschili meno “sessisti”, parlare di sessualità e di amore con meno dismisura o ancora di fare in modo che “i traumi subiti dai personaggi femminili” siano resi più evidenti! Prossimo al ridicolo, un progetto di legge in Svezia vuole imporre un consenso esplicitamente notificato a ogni candidato a un rapporto sessuale! Ancora uno sforzo e due persone adulte che avranno voglia di andare a letto insieme subito prima dovranno, tramite una app del loro smartphone, firmare un documento nel quale le pratiche che accettano e che rifiutano saranno debitamente specificate.
Il filosofo Ruwen Ogien difendeva la libertà di offendere in quanto indispensabile alla creazione artistica. Allo stesso modo difendiamo la libertà di importunare, indispensabile alla libertà sessuale. Siamo oggi sufficientemente avvertite per ammettere che la pulsione sessuale è per natura offensiva e selvaggia, ma siamo anche sufficientemente perspicaci per non confondere un rimorchio imbarazzante con un’aggressione sessuale. Soprattutto siamo coscienti che la persona umana non è un monolite: una donna può, nella stessa giornata, dirigere un’équipe professionale e gioire di essere l’oggetto sessuale di un uomo senza essere né una “troia” né una vile complice del patriarcato. Ognuna di noi può fare attenzione al fatto che il suo stipendio sia uguale a quello di un uomo, ma non sentirsi traumatizzata per uno “struscio” nella metro, anche se questo è considerato come un reato. Può anche immaginare un comportamento del genere come l’espressione di una grande miseria sessuale, o comunque come un non-avvenimento.
In quanto donne, noi non ci riconosciamo in questo femminismo che, al di là delle denunce degli abusi di potere, prende il viso di un odio degli uomini e della sessualità. Pensiamo che la libertà di dire no a una proposta sessuale non esista senza la libertà di importunare. E consideriamo che bisogna rispondere a questa libertà di importunare in altro modo che trincerandosi dietro il ruolo della preda. Quelle tra noi che hanno deciso di avere dei bambini, credono che sia più giudizioso educare le nostre figlie in modo che siano sufficientemente informate e coscienti per poter vivere pienamente la loro vita senza lasciarsi intimidire né colpevolizzare. Gli incidenti che possono toccare il corpo di una donna non inficiano necessariamente la sua dignità e non devono, per quanto siano duri, necessariamente fare di lei una vittima perpetua. Perché non siamo riducibili al nostro corpo. La nostra libertà interiore è inviolabile. E questa libertà che noi abbiamo cara non esiste né senza rischi né senza responsabilità.